È nelle librerie Massimo Gezzi col suo nuovo libro di poesie Il numero dei vivi edito da Donzelli (pp. 88, euro 17) e nella lettura sembra a volte tornare l’eco lontana dei Passages parigini di Walter Benjamin. Nelle pagine difatti il reale percepito, amato, anche temuto, la vita insomma, sembra dialogare e mischiarsi costantemente col filosofare connaturato all’autore che spunta chiaro e interrogativo in molte parti del libro. Non può darsi vita, sembra suggerire Gezzi, senza un pensiero cogitante che la rielabori e cerchi di illuminarne gli accadimenti e le sue ombre che s’allungano poi su ogni possibile futuro: «//Difendi questa luce, se sei nulla/come tutti. Difendi questo nulla/che non smette di essere. Smetti tu di tirare/righe scure, di cancellare. Tocca il tavolo, la carta./Impara un’altra volta a far di conto:/non sottrarre allo zero, aggiungi uno/».

E il libro è proprio questa voce che cerca di parlarsi, parlarci, attraverso come dei frame, degli spazi temporali circoscritti in cui eventi descritti minutamente con grazia, talvolta con dura crudezza, ci portano sempre al senso stringente della vita, alle sue tragiche evidenze, talvolta alle sue amarissime conseguenze. A volte, le pagine divengono fotogrammi che si discostano di poco gli uni dagli altri, pagine seriali scandite da numeri crescenti dove non cambia il cuore, il soggetto della sceneggiatura diremmo, cambia il suo articolarsi, il suo muoversi per scarti minimi verso una via o un’altra; di qua o di là da mutamenti esistenziali vi è uno scarto di pochi secondi, pochi metri. I microaccadimenti, la storiografia invisibile, sono per l’autore le vere rivoluzioni che muovono il mondo, come per esempio il gesto intimo che declina verso una separazione definitiva o un abbraccio indissolubile o le catene del destino, anche, che si aprono, si chiudono su uomini e donne e che a loro volta vanno silenziosamente ad aprire chiudere altre porte, altre vite: «Si sono incrociati un’ultima volta sulla porta,/dove la soglia divide l’umido dal secco,/il tepore dalla nebbia ghiacciata/…».

Ma in agguato nella scrittura di Massimo Gezzi vi sono due parole che tornano dando una direzione alla sua poetica: la prima potremmo chiamarla dissoluzione, quella che disfa i corpi, gli oggetti, addirittura gli affreschi di due sposi del primo rinascimento visti nella rocca di Vignola, sembrano sfiorire nella profondità della parete e del tempo ma tutta questa disgregazione non sposta la scrittura verso una caduta nichilista, anzi sembra maturarla verso una descrizione potenziata, dando della vita una testimonianza più vivida. L’altra parola masticata amara ma pronunciata chiara è indifferenza. L’indifferenza dell’uomo sull’uomo e non solo del malvagio che appare scontata ma anche dell’uomo dotato di virtude e conoscenza che, preso dalla società meccanizzata, dalla sincronia giornaliera degli impegni fugaci, rimuove quel punto di sospensione, epochè direbbero i greci, dello sguardo commosso che ogni spazio di umana lacerazione richiede per essere compresa a pieno. E, tornando al titolo del libro, sembra che il suo significato riporti a quel punto di ascolto appassionato, quel tono d’umiltà che occorre coltivare per intendere sino in fondo la fragilità dell’altro. Per poter essere davvero, poeticamente, nel numero dei vivi.