A una settimana dall’omicidio in diretta di George Floyd la convulsione americana prosegue e si stratificano le immagini di sei giorni di passione e disgusto in 100 città (per la verità il Times ne ha contate 149).

ALL’INCROCIO DOVE È MORTO George Floyd i militanti di Minneapolis mantengono un presidio permanente, una specie di collettivo fluido, multicolore e multi -gender, dove si piange e si discute – anche tutta la notte – di politica e strategia e resistenza. Ed emerge l’eloquenza lucida di un movimento orizzontale che ha trasformato la rabbia esplosa incontenibile nei ghetti neri in un azione politica che non ha precedenti dai tempi di Martin Luther King e del movimento contro la guerra in Vietnam.

E forse solo nelle rivolte diffuse in dozzine di città dopo l’assassinio di King esiste un parallelo a quello che sta accadendo oggi. Ma il paese è più alla deriva e in assenza di leadership politica si moltiplicano le intemperanze dei corpi di polizia, sempre più aggressivi come mostrano gli episodi in cui agenti lanciano volanti contro la folla. Dopo Denver e New York anche a Los Angeles un’auto del LAPD ha travolto un gruppo di ragazzi. A Minneapolis un autocisterna si è lanciata a tutta velocità contro un corteo e solo per miracolo non ha fatto una strage (l’autista è stato quasi linciato prima di venire salvato in extremis e arrestato).

FOTOGRAFIE DI UN PAESE vicino allo sbando in cui tutto può ancora accadere. Tralasciando i proclami moralisti di chi richiama all’ordine pubblico – come se le corrette espressioni di una disperazione sedimentata in molte generazioni potessero essere prescritte dalle autorità – cominciano a registrarsi anche diverbi di linea fra militanti e componenti “opportuniste” delle manifestazioni. Quelle indette nel weekend da Black Lives Matter per West Hollywood e Beverly Hills ad esempio intendevano specificamente invadere i luoghi simbolo della affluenza e del lusso bianco. Alla distruzione di vetrine e agli espropri “politici” si sono poi certamente sommati una numero di saccheggi celebratori che sono immancabile corollario dei sollevamenti urbani, uno specchio ribaltato del consumismo ossessivo.

DOMENICA A LOS ANGELES sono state colpite Santa Monica e Long Beach, ridenti ed agiate comunità balneari luoghi topici della California bionda, surfista e illuminata – annesse ieri di forza alla realtà sociale che sottende tanta ricchezza: il vasto hinterland che esiste alle loro spalle dove vive quella della forza lavoro invisibile (oggi si dice essenziale) che lavora – precettata se necessario in tempo di pandemia – per mantenere il pil della quinta economia mondiale e lo stile di vita lungo quelle spiagge.

 

Murale dedicato a George Floyd nelle strade di Los Angeles (Ap)

 

La manovra ha spiazzato la guardia nazionale che presidiava il municipio e Hollywood boulevard. È accorso invece un esercito di polizia che ha imposto il coprifuoco da aggiungere al lockdown: chi è in strada dopo le 18 è passibile di arresto. Gli agenti sono inizialmente rimasti in gran parte a guardare i saccheggi e poi hanno effettivamente cominciato ad arrestare in massa, concentrandosi non su quelli che uscivano dai negozi con mercanzia in mano ma sui manifestanti che pacificamente inscenavano sit-in e che si sono aggiunti ai 368 fermati sabato.

INTANTO DALL’ALTRA PARTE del paese la Casa bianca veniva di nuovo cinta d’assedio da una folla numerosa e rumorosa che scandiva il nome di George Floyd. All’interno il «leader del mondo libero» come ancor viene designato qui il presidente, veniva portato nel bunker di sicurezza, si spegnevano i riflettori esterni. Dagli scantinati Trump reiterava via tweet la teoria complottista su Antifa e Black Block, presunti manovratori dell’insurrezione e ultima entry nel cast di antagonisti su cui è predicata la narrazione trumpista.

NELLA LISTA DEI NEMICI necessari, dopo la stampa, la Cina, i Messicani, la Nato e l’Oms iscrive ora gli estremisti di sinistra che nel demente teorema avrebbero il potere di organizzare un sollevamento nazionale. È l’ultimo fumetto improvvisato per coprire la colpevole responsabilità dell’uomo che si rifiuta ancora di parlare alla nazione («sarebbe una concessione ai terroristi anarchici») e che mentre il suo paese esplodeva è andato a Cape Canaveral a parlare di splendidi cannoni su Marte.

La verità è che il presidentissimo accartocciato nel bunker è alle prese, dopo la pandemia, con la seconda crisi concreta ed esistenziale che ne rivela la tragica insufficienza politica.

IL SILENZIO ASSORDANTE proviene però un po’ da tutti i vertici politici del paese. Joe Biden si è limitato ad espressioni di prammatica solidarietà preconfezionata, Barack Obama a poco di più. I Repubblicani restano non pervenuti, tranne eccezioni come Tom Cotten, senatore dell’Arkansas che contro le proteste ha chiesto l’intervento dell’aeronautica.

Trump ha chiuso la giornata con una semi intellegibile requisitoria telefonica con i governatori degli stati, denunciandone l’inefficacia: «Dovete dominare, oppure vi passeranno sopra, farete la figura dei coglioni».

IN QUEL TWEET c’è tutta l’immagine triste di una classe dirigente non all’altezza ma anche la notifica di una prossima campagna elettorale imperniata sull’addossare la colpa alle amministrazioni democratiche delle grandi città che «non hanno saputo mantenere l’ordine». Un’escalation senza scrupoli disposta, in un momento di crisi epocale, a perseguire la terra bruciata dell’opportunismo.