Giovanni Marrozzini come molti fotografi avventuristi fotografa le persone e i luoghi che racconta, poi, quando mostra le foto narra ancora quello che è racchiuso in quelle stampe, in modo che queste due dimensioni possano funzionare da vasi comunicanti.

Non a caso ha scritto: «Credo alla fotografia come mezzo per raccontare storie. Ho sempre avuto il desiderio che i racconti nati dalle mie immagini potessero tradursi in parole».

Possono essere le immagini tenere e terribili di due omosessuali rinchiusi in un ospedale psichiatrico a Betlemme, ritratti abbracciati in un letto, il caleidoscopico campo rom in Albania, o la favola di un Pinocchio sudamericano che rivive nell’immaginazione di un falegname marchigiano emigrato in Argentina.

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I figli del fotografo, con i primi 120 libri raccolti dal progetto «Parolamia»

Il fatto che sia inoltre un infaticabile affabulatore, rivela questo continuo bisogno di inventare racconti per nutrire gli scatti rubati o costruiti mentalmente nel corso dei suoi viaggi alla ricerca di colmare l’intero perimetro del mondo.

Le sue foto hanno sempre una disperata vitalità, soprattutto plastica, e ogni volta l’urgenza formale incrocia quella della condizione umana tout court oltre la denuncia, a lui non interessa la realtà come una memoria da affidare ai posteri o una rappresentazione fedele al vero, la realtà intende superarla, romperla, moltiplicarla con intento visionario. Se con Itaca ha attraversato lo stivale in camper facendo un inedito viaggio in Italia, adesso questo intreccio tra narrazione e immaginazione fotografica ha dato la vita ad un altro progetto, Parolamia, che è un baratto artistico.

Dall’aprile del 2015 ogni mese stampa 40 esemplari di una sua fotografia, accompagnata da un testo di un critico o di uno scrittore (Cesare Colombo, Giovanna Calvenzi, Stefano Valenti e Massimo Raffaeli, tra gli altri) che scambia con 3 libri ciascuna.

È l’intreccio simbolico e ideale tra un fotografo e la grande letteratura che da sempre alimenta il suo mondo (Auster, Flaiano, Artaud gli ultimi), tra un viaggiatore e altri viaggi, metaforici e reali, quelli delle ormai 350 foto che hanno raggiunto altrettanti destinatari, e gli oltre mille volumi di una biblioteca ideale che in parte diventeranno le letture dei suoi figli piccoli Leone e Francesco, e in un altro vagabondaggio hanno raggiunto o stanno per raggiungere luoghi di letture sparsi nei tanti posti dove le fotografie sono state scattate, persino nella sua città, Fermo, baricentro di tutti i suoi spostamenti, nel quartiere multietnico di Lido Tre Archi, dove nascerà una biblioteca fatta con libri di tutte le lingue del mondo.

Quando lo incontro nella Piazza del Popolo della nostra piccola città, luogo abituale degli appuntamenti, mi appare alto e marziale, una giacca blu da marinaio, il volto dai segni marcati e la barba folta, sempre inguaribile nel raccontare e vitalistico come pochi, continuamente in fuga e in bilico tra una viaggio appena terminato e un altro da intraprendere in America Latina, dove è tornato tante volte, in Africa o in Islanda. In realtà Parolamia, nasce innanzitutto da una necessità, sostiene mentre camminiamo fianco a fianco.

Rimproverato da sua moglie Mary per gli acquisti compulsivi in libreria, lui che legge un libro ogni tre giorni, pensò a come avrebbe potuto ammortizzare le spese di questo suo necessario ma dispendioso nutrimento. «Pensai: se invece di comprare libri perché non li scambio con le mie fotografie? Visto che ho deciso da sempre di non venderle o affidarle alle agenzie».

L’associazione con una firma autorevole che potesse raccontarle avrebbe chiuso il primo cerchio. «In cambio di libri potevo dare una mia stampa con un testo scritto, quasi una permuta alla pari, con un valore senza prezzo perché, essendo un baratto, non è calcolabile, è uno scambio culturale» mi spiega sicuro. Il nome Parolamia corrisponde a una promessa data, un patto etico, «e poi c’è la parola che torna, sia associata all’immagine che all’interno dei libri», racconta Giovanni mentre beviamo un caffè al bar “La Pizzicosa”, guardando in lontananza un paesaggio collinare fiabesco di terre morbide.

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Ricordo la prima volta che me lo raccontò, era ancora alle prese con la meccanica, cioè come creare una piattaforma per lo scambio. In un primo momento aveva preso contatto con un noto marchio editoriale, ma la cosa non era andata in porto, poi era arrivato l’accordo con Hoepli, che sulla scorta di una lista di volumi pubblicata sul sito www.marrozzini.com e sul suo profilo facebook, si preoccupa di vendere i libri a chi riceverà le sue stampe autografate e poi a spedirglieli a domicilio, o inviarli ad altre destinazioni.

«L’ultima fotografia, quella della bambina cieca scattata in Etiopia, raccontata da Massimo Raffaeli, stampata in 50 copie, è servita a creare i primi insediamenti di due piccole biblioteche, una permanente in Amazzonia a Manaus di 30 libri in lingua portoghese, l’altra di 120 volumi formerà invece la prima biblioteca itinerante amazzonica nella provincia di Pichari in Perù». Territorio dove Giovanni è stato, noto innanzitutto per il traffico internazionale della cocaina e del narcoterrorismo, dove le comunità isolate all’interno della selva, quelle che coltivano invece il cacao, proprio per il vivere nella legalità vengono emarginate, e i bambini sono abbandonati a se stessi. Lui quando approda in questi posti ci arriva arreso, poi cerca di penetrarli stabilendo rapporti di empatia.

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Giovane venditore di colombi palestinese, Hebron 2008

«C’è uno scrittore che amo, Julio Cortázar – mi racconta complice mentre ci spostiamo verso il Duomo, risaliamo i piccoli dedali del borgo antico -, il quale dice che le cose non accadono mai per caso, le persone non si incontrano mai per caso, e allora ti affidi a qualcuno, ci vai con un animo talmente aperto, così ben disposto, che le cose ti vengono incontro».

Ecco che, come in Parolamia, le storie iniziano prima di ogni possibile scatto, i pochi o tanti clic, le inquadrature, i tagli sono solo la conseguenza dell’esserci arrivati. «Sono andato lì perché dovevo raccontare una tribù indigena e altre popolazioni che vivono lungo il Rio delle Amazzoni, dalla foce alla sorgente, dal Brasile al Perù passando attraverso la Colombia, 7 mila chilometri, e mancava il tratto del Rio Apurimac, sulle Ande, non avrei mai immaginato di incontrare un impiegato del comune che poi mi ha accompagnato a visitare luoghi dove basta una pioggia torrenziale di due giorni perché i bambini non possono accedere alla scuola», continua a raccontare, gli occhi spiritati, in un flusso quasi inarrestabile, come se ancora prima vedesse quello che descrive. Nella scuola hanno pochissimi libri, allora in quel momento gli è venuto di dire «quelli ve li posso procurare io». Adesso partirà fisicamente una sua amica, porterà con sé i pacchi stipati di libri per consegnarli, perché vuole essere sicuro che arriveranno a destinazione.

L’ultima foto, quella della bambina cieca, che ha prodotto il miracolo di questa nuova biblioteca, la racconta così: «Stava china, faceva un gesto al quale era abituata prima di perdere la vista a causa di una malattia, come se si sforzasse di leggere a tutti i costi, non può leggere però, il suo libro è in braille, ma anche se lo decifra al tatto è come se stesse leggendo col cuore», dice stringendo in pugni e guardandomi intensamente negli occhi commosso.

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Bambina non vedente, Soddo Etiopia, 2006