Una foto è un istante. Parla da sola, spesso. Le parole che possono accompagnarla aiutano la comprensione, moltiplicano il senso. Il corpo di un bambino ridotto a fagottino appoggiato sulla sabbia, riverso a faccia in giù, è al centro dei nostri occhi da qualche giorno.

Trovo legittima, doverosa, la scelta di pubblicare, proiettare in prima pagina quella foto. E di accompagnarla con due semplici parole, «Niente asilo», che descrivono-denunciano l’assenza di una politica dell’accoglienza di fronte a migrazioni epocali. E dicono che Aylan, profugo siriano di tre anni, e altri bambini come lui non avranno un futuro oltre quella spiaggia, di normalità, scuola, giochi, amici.

Il dibattito corre, sembra quasi già superato. Quando è arrivata sui giornali, la foto circolava da tempo sui social network. Si discute dell’assuefazione a immagini estreme. Se l’immagine debba provocare disagio o colpa o sdegno. Se sia oscena e inaccettabile la foto o la realtà che ritrae. Se sia più etica una sequenza che racconta o lecita una singola immagine che diventa icona. Abbondano le sentenze degli specialisti, si perde il senso del dramma dietro.

Non vedo desiderio di spettacolarizzazione nell’immagine di Aylan, ma un’onesta volontà di cronaca. Non è importante che chi ha prodotto la foto sia un professionista, un operatore o un osservatore di passaggio, qualcuno che possieda tecnicalità specifiche. È importante la testimonianza. L’autrice dello scatto stava in prima linea, sul posto.

Qualche mattina fa Nilufer Demir, che lavora per l’agenzia turca Dogan News Agency, faceva un giro sulla spiaggia di Bodrum da cui i migranti salpano per raggiungere l’isola greca di Kos. E ha visto quel corpo. Da fotoreporter ha informato.

Un cronista testimonia (e certo evoca allo stesso tempo). Un giornale sceglie e sente il dovere di pubblicare. Un lettore-fruitore guarda, legge, osserva. La condivisione in rete ha spaccato questo schema, che però in parte continua a funzionare e far discutere. Resta la funzione civile di operare una scelta e di ri-accendere un riflettore.

The Indipendent è stato tra i primi a diffondere quelle immagini sia su carta che nel web. Qualche giorno prima della morte di Aylan, nel suo sito aveva pubblicato un video di tre minuti dal titolo «Se il Surrey fosse la Siria», a supporto della campagna Save Syrias Children di Save the Children. Girato con telecamere nascoste, per registrare la reazione spontanea della gente – tra incredulità, spavento, rabbia, angoscia – davanti alle scuole chiuse, e circondate da filo spinato, perché troppo pericolose da frequentare a causa dell’azione di gruppi violenti; dentro supermercati con scaffali semivuoti e beni di prima necessità (come pane e latte) razionati; di fronte a un’ambulanza bloccata per ordine pubblico impossibilitata a raggiungere l’ospedale. Il filmato si chiude con i numeri della tragedia siriana (undici milioni di persone in fuga), immagini di bambini che vagano tra le macerie e la scritta: «Il solo fatto che non stia accadendo qui non significa che non stia accadendo».

Certo ci sono anche i video, le corrispondenze, la tv, la letteratura, a comporre un quadro di informazione. Le fotografie però fermano. Una porzione di realtà, un frammento del quadro. E quella porzione rimane. Anche nel cinema. Come la bambina dal cappotto rosso in Schindler’s List, punto di colore che focalizza l’attenzione e rende riconoscibile, tra la massa indistinta, l’individualità.

Non è questione di primati tra mezzi di espressione. Ma nell’epoca del web l’immediatezza e potenza del medium fotografico a volte si impone. E noi parliamo di quella foto. E Aylan, la cronaca di quel dolore, scorre. E si mescola nel flusso ad altro, magari a un annuncio di mete esotiche o a divi glamour ospiti in qualche festival cinematografico.

Forse oggi, che le ondate di profughi e migranti sono giunte nel cuore d’Europa, le marce bibliche su un’autostrada hanno più effetto dei cadaveri che punteggiano il canale di Sicilia, i treni e i furgoni tra Budapest e l’Austria più dei barconi. I cosiddetti grandi ora dicono di capire, meglio tardi che mai, probabilmente perché le opinioni pubbliche sono toccate. E allora cavalcano invece di anticipare. Alcuni dichiarano che quella foto ha cambiato (certamente ha smosso) la politica. Il consenso si orienta sulla difesa dei migranti invece che sul respingimento.

Mio figlio è venuto a dirmi: Papà, ma allora, se fossimo in Sicilia, non potremmo immergerci e fare le foto dei migranti che stanno sotto al mare per farle vedere?

Ci sono istanti (decisivi), punctum, che rimangono nella memoria. Il vietcong giustiziato, il miliziano di Capa, l’uomo davanti ai carri armati di Tienanmen. Senza voler fare classifiche o produrre glorie, Aylan entrerà in questa galleria o sarà presto dimenticato, sostituito. Ma ha toccato coscienze, generato compassione.

Chissà se muoverà la politica di chi decide. Se tutto questo servirà a cambiare un titolo e a cancellare quel niente.

* L’autore è Fotografo e giornalista