Il disastro è completo e non serve arrampicarsi sugli specchi, come fa Deborah Bergamini, anello fondamentale del cerchio poco magico che ha strangolato definitivamente Forza Italia: «In fondo questi risultati non sono così peggiori degli ultimi». In parte è vero. Ma il quadro complessivo ricorda più Hiroshima dopo la deflagrazione che non Caporetto o Waterloo. Il successo indiscutibile della Lega, che mette insieme il triplo dei voti dell’ex alleato maggiore ma in alcune realtà va ben oltre, affonda ulteriormente il coltello nella ferita azzurra.

Quel che rende il dato, già terrificante, persino peggiore è che la disfatta trentina arriva non dopo un terremoto nel regno di Arcore ma alla sua vigilia. Formalmente, Fi è ancora un partito unito. Di qui all’estate non lo sarà più. Fitto, che sta con un piede e mezzo fuori dal partito ma esita a compiere il passetto finale perché è sempre bene far ricadere colpe e responsabilità sugli altri, lo dice chiaramente: «Il centrodestra messo in campo da Berlusconi è abbastanza superato». E perché mai, allora, il viceré pugliese resta nel vascello ormai obsoleto? «Perché Fi, per detta dei suoi stessi esponenti, non c’è più». Una tipica non-risposta. In realtà la decisione di don Raffaele e dei suoi «ricostruttori» è già presa. L’operazione, con tanto di fondazione di un nuovo gruppo parlamentare al Senato e la fuoriuscita di 14 deputati a Montecitorio, dovrebbe scattare già questa settimana, ma all’ultimo momento una parte dei ribelli ha iniziato a proporre un rinvio: meglio dopo le regionali, quando l’ecatombe di Fi renderà chiare a tutti le ragioni dell’addio. Questione di giorni o di settimane, il risultato non cambia.

Sul fronte opposto, quello dei forzisti che guardano a Renzi, il distacco non si verificherà probabilmente sino alla vigilia della pausa estiva, quando a palazzo Madama arriverà il secondo voto sulla riforma istituzionale. E’ probabile che a quel punto una parte dei dissidenti Pd non riuscirà più a tenere il piede in due staffe. Fossero anche pochi senatori, basterebbero per mettere la riforma a rischio. I «verdiniani», e forse anche qualche altro senatore capace di fare con oculatezza i propri conti e tornaconti, dovrebbero in quel caso rompere gli indugi e offrire il loro appoggio al fiorentino, seguendo la pista aperta da Sandro Bondi e Manuela Repetti. Lo faranno, tanto più se l’esito delle elezioni del 31 maggio rispetterà le previsioni e il mesto anticipo trentino.

Ma l’elemento che più di ogni altro indica un declino irreversibile è l’inadeguatezza assoluta delle risposte da parte dello stato maggiore azzurro. Giovanni Toti, delfino e candidato con poche chances di successo in Liguria, non sa cosa dire e non riesce a nasconderlo: «I risultati sono ampiamente deludenti e ritengo siano il frutto di inadeguatezza di ricette, litigi, totale incapacità della nostra classe dirigente». La diagnosi è precisa. La cura inesistente: «Ripensamento della struttura in quella zona e nomina di un commissario». Acqua fresca. Ma dare le colpe a Toti sarebbe crudele e ingiusto. Il timone non lo tiene lui ma Berlusconi, ed è a Berlusconi, con la sua fumosa idea di dar vita ai «Repubblicani» come massima proposta, che va addebitata la débacle. «Il Partito repubblicano? Lo stiamo facendo. Non quello americano: quello di La Malfa, che stava sotto il 5%», chiosa feroce un dirigente azzurro.

Berlusconi non ha più idee né progetti. Gli elettori lo sentono e lo puniscono. Ma la Lega, con tutto il suo trionfo, si trova per certi versi nella stessa situazione. Salvini ha fatto un miracolo portando un partito che pareva cadavere a raggiungere il 13% e a umiliare senza pietà il gigante di Arcore. Ma questo risultato, anche se sarà confermato dal test del 31 maggio, non gli permette di ambire a una vittoria nelle future elezioni politiche. Non che la cosa lo impensierisca molto. La Lega, a differenza di Forza Italia, è un partito che sa e può benissimo vivere all’opposizione e di opposizione. Ma resta il fatto che la vera carta vincente di un Renzi tutt’altro che invincibile sta oggi nell’assenza di un qualsiasi progetto potenzialmente vincente alla sua destra.