Di fronte alla tragedia di Prato, con quei lavoratori «invisibili» di cui però tutti sanno, il sindacato non può che prendere atto della propria impotenza. E fa un mea culpa. «Ma non siamo gli unici a dover ammettere che quel modo di produrre e di lavorare è noto da anni – dice Emilio Miceli, segretario generale della Filctem Cgil, che riunisce tessili, chimici ed elettrici – Dobbiamo dire che anche la politica, le istituzioni nazionali e locali, le forze dell’ordine e gli industriali, gli ispettori dell’Inps e l’Inail, sanno come funzionano le cose a Prato. E che finora non si è chiuso solo un occhio, ma tutti e due».

Un’affermazione pesante. Beh, certo, tutti sappiamo che a Prato c’è una grossa comunità cinese che con il suo lavoro «low cost» ha sostituito di fatto quella italiana, ma davvero in loco tutti conoscono queste forme di schiavitù e tollerano?

A Prato c’è una vera e propria enclave completamente sottratta allo Stato, alle leggi e alla Costituzione. È un pezzo di Italia e di Europa che di fatto non sta in Italia e in Europa, ma in Cina, intendo nella peggiore Cina. Quello che è accaduto ci ricorda tragedie simili accadute di recente in Pakistan, in India, in Bangladesh, ed è inutile fare pianti di coccodrillo: se ovviamente siamo sconvolti da quelle morti, dobbiamo però ammettere che tutti sappiamo e sapevamo, e che tutti abbiamo sbagliato finora.

Ma perché voi del sindacato allora non denunciate? Non si rivolge mai nessuno di quei lavoratori-schiavi alle vostre strutture? Magari non avrete iscritti, perché sono irregolari e sfruttati, ma un delegato più sensibile, italiano, che venga in soccorso a queste persone non c’è?

Posso dire che in effetti non abbiamo iscritti della comunità cinese, che resta per noi del tutto impermeabile. Un po’ perché culturalmente tendono a stare chiusi in sé, a fare comunità, ma soprattutto perché si instaura un rapporto vittima-carnefice che porta chi lavora in quelle condizioni a conservare il suo letto, la sua paga, il suo posto. Poveri e precari, è vero, ma se si pensa che si è fuori dalla propria terra e che spesso non si conosce la lingua, si può comprendere l’alienazione di questi lavoratori: che magari non conoscono neanche le leggi e le strutture che potrebbero liberarli.

A questo punto cosa farete? Aspetterete che qualcuno di loro si avvicini a voi, o magari il sindacato, da Roma o da Prato, proverà ad avvicinarsi a queste persone?

Questa è una vicenda-spartiacque per il sindacato, e penso che unitariamente dovremmo mobilitarci, non appena sarà passato il momento del lutto: fare in modo di dare una mano a chi opera con difficoltà in quel territorio, siano nostri delegati o cittadini.

Ma non è che la tolleranza viene per prima dalla città, piegata dalla crisi? Molti imprenditori lì hanno perso le fabbriche, rilevate dai cinesi, ma oggi l’economia pratese è per la gran parte l’economia prodotta da quei capannoni in nero. Vi risulta per esempio che imprenditori italiani comprino quei vestiti? Voi stessi parlate di ben un milione di capi prodotti ogni giorno. Vi risulta che lavoratori italiani, magari cassintegrati, lavorino in nero per i cinesi

? Non posso escludere che imprenditori italiani comprino quei capi, anche se è produzione di seconda qualità, che non fornisce le grosse griffes. Né posso escludere che alcuni italiani, costretti dalla crisi, lavorino in nero per quei capannoni. Il punto adesso è prendere coscienza, tutti, istituzioni, enti di controllo, parti sociali, di quel che accade. Chiedere regole e controlli. E a Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato, che dal Corriere della sera ci accusa di un colpevole silenzio, a lei che viene dalla Cgil dei tessili, dico: anche lei sicuramente sapeva.