A Roma chi si trovi a passare su via Flaminia in direzione Piazza del Popolo, nei pressi di Villa Poniatowski, può vedere sul muro di un palazzo dove ha ora sede il Consiglio del Notariato di Roma, Velletri e Civitavecchia, una targa di marmo rettangolare, posta nel 1911, leggermente scolorita dal tempo, che ricorda che «Qui / Mariano Fortuny / spagnolo / acceso dalla gloria di Roma / fissò nei colori / tutta la luce e la giocondità latina / fino alla morte precoce / il 21 novembre 1874…».
Nel corso dei suoi trentasei anni di vita Mariano Fortuny y Marsal, nato a Reus, in Catalogna, l’11 giugno del 1838, girò instancabilmente per l’Europa e il Nord Africa, fermandosi a Barcellona, Parigi, Tangeri, Napoli e soprattutto, più volte, a Roma. Fortuny, la cui fama deve molto al sodalizio con il mercante d’arte Adolphe Goupil, con la sua pittura leggera e delicata dipinse per lo più interni raffinati, aggraziate signore rappresentanti dell’alta borghesia italiana ed europea, ma anche scene di battaglia, copie o reinterpretazioni dai dipinti dei grandi maestri del passato, olii e acquerelli, spesso di ispirazione orientalista, sempre caratterizzati da un’elegante e virtuosistica ricercatezza di forme, pose e abiti che affascinò molti artisti suoi contemporanei. La pittura di Fortuny, tra esotismo e gusto settecentista, ispirò diversi suoi colleghi italiani come Domenico Morelli, Attilio Simonetti, con il quale condivise lo studio romano di via Flaminia, Giacomo Favretto, Domenico e Gerolamo Induno, che gli furono debitori nell’utilizzo del colore come materia di tocchi luminosi. Molti giovani pittori romani, attratti dai facili guadagni, iniziarono però presto a imitarne e addirittura falsificarne le composizioni, trasformando così rapidamente la sua opera in una moda stereotipata.
La predilezione di Fortuny per l’orientalismo, che si nutriva del contatto diretto con le antichità osservate nel Mediterraneo, fu da stimolo per farlo divenire un appassionato collezionista, in particolare di oggetti di arte moresca e islamica che raccolse nel suo atelier di Roma, presto trasformato in un luogo di incontro per artisti, intellettuali e mercanti, nodo centrale per la diffusione del gusto orientaleggiante nell’ambito romano.
Fortuny morì improvvisamente a Napoli di febbre malarica e, alla sua morte, la collezione venne subito messa all’asta, dapprima a Roma nel febbraio del ’75 e, successivamente, nell’aprile dello stesso anno, a Parigi, dove, presso l’Hotel Drouot, fruttò più di 800.000 franchi. Negli elenchi della seconda tornata di vendita, oltre a dipinti, acquerelli, stoffe e tessuti antichi, emerge, come oggetto di straordinaria rarità, un’anfora ispano-moresca dai riflessi metallici, che, acquistata da un emissario dello zar, è conservata oggi all’Ermitage di San Pietroburgo. Proprio questo pezzo, il Vaso del Salar, caratterizzato da una base in bronzo zoomorfa disegnata dallo stesso Fortuny y Marsal, è uno degli oggetti più importanti esposti nella mostra I Fortuny – Una storia di famiglia, fino al 24 novembre, a cura di Daniela Ferretti con Cristina Da Roit, dedicata a Fortuny, a suo figlio Mariano Fortuny y Madrazo e agli intrecci dei destini di questi due singolari artisti nonché raffinati collezionisti, aspetto quest’ultimo su cui l’esposizione indaga in modo approfondito.
Quando Fortuny morì suo figlio Mariano aveva appena tre anni. Nato a Granada l’11 maggio 1871, si trasferì immediatamente con la famiglia a Parigi, dove viveva il fratello della madre, Raimundo de Madrazo, famoso ritrattista. Divenne quindi giovanissimo allievo del pittore Benjamin-Constant e frequentò lo studio di Rodin. Nel 1889, sempre con la famiglia, si spostò a Venezia, dove inizialmente visse a Palazzo Martinengo, sul Canal Grande, fino al 1899 quando acquistò il Palazzo Pesaro degli Orfei, affacciato tra Campo San Beneto e Rio di Ca’ Michiel, ora conosciuto come Palazzo Fortuny. Proprio qui si svolge la mostra, in contemporanea con la Biennale d’arte, ricordandoci che nel 1950, pochi mesi dopo la morte di Fortuny figlio, il padiglione spagnolo dedicò un’intera sala ai due Fortuny e ai pittori della famiglia Madrazo.
Le collezioni di ceramiche, armature, stoffe e tappeti, parzialmente ricostruite in mostra, ma anche i dipinti e gli acquerelli del padre, furono una componente essenziale della vita e dell’opera del figlio, che, pur considerandosi principalmente un pittore, divenne celebre come fotografo, scenografo e, soprattutto, per le stoffe e i vestiti disegnati insieme alla moglie Henriette, che rivoluzionarono definitivamente la moda femminile all’inizio del Novecento. Gli abiti di Fortuny, come il famoso Delphos del 1909, contribuirono, insieme a quelli del noto sarto francese Paul Poiret, alla liberazione del corpo femminile dalla costrizione di bottoni e corsetti soffocanti, rappresentando quindi molto più di una semplice novità della moda. Inizialmente pensati per essere indossati soltanto come tuniche, abiti da pomeriggio da portare in privato come una sorta di négligé, finirono per essere indossati in pubblico in modo trasgressivo e sensuale dalle donne più in vista di quegli anni. Realizzati in ogni gamma di colore, da quelli più tenui e neutri fino ai rossi corallo e ai blu più profondi, e caratterizzati da una leggerezza quasi impalpabile della stoffa, gli abiti di Fortuny vengono più volte descritti da D’Annunzio e da Proust nelle loro opere.
Proprio Albertine, la protagonista della Recherche, «tutta adorna di motivi arabi, come Venezia, come i palazzi veneziani nascosti a mo’ di sultane dietro un velo di marmo traforato», preferisce un abito dell’artista veneziano a tutti gli altri suoi vestiti. Peggy Guggenheim, Luisa Casati, Rita de Acosta Lydig indossarono e si fecero ritrarre con le ampie tuniche orientaleggianti di Fortuny. Mentre gli abiti Delphos rappresentavano quindi qualcosa di irrinunciabile per le donne più emancipate e trasgressive, le sciarpe Knossos, prodotte a partire dal 1907 e ispirate alle scoperte sull’isola di Creta dell’archeologo Arthur Evans, erano al collo e sulle spalle delle più importanti attrici e ballerine internazionali come Ruth St. Denis, Eleonora Duse, Sarah Bernhardt e Isadora Duncan. La tragica fine della Duncan fu causata proprio da una lunga sciarpa di seta che si impigliò nei raggi della ruota posteriore della sua Bugatti, si trattava però di una creazione dell’artista russo Roman Chatov che nulla aveva a che fare con il marchio, ormai divenuto famoso, «Mariano Fortuny Venise».