Solo acqua su acqua, pioggia feroce sul mare e un bianco e nero tagliente. Soltanto un’immagine di sé nello spazio angusto della stiva: il corpo accucciato a quello di sua madre. Poi l’irrompere notturno di un controllo di polizia e il suo ricordo – in voce over – del continuo tornare dell’odore di olio e di vomito, ovunque, come un incubo, tra i capelli e nell’aria. In Fortuna di Germinal Roaux troveremo poco o nulla della contemporanea, spesso logora, narrazione cinematografica sul vissuto delle persone migranti. Invece, inaspettatamente, il film – in anteprima italiana alla 67ma edizione del Trento Film Festival, rassegna internazionale delle culture di montagna, diretta da Luana Bisesti – ci proietta in un universo innevato, campo lungo sui contorni quasi disegnati di un convento cattolico svizzero che funge da asilo temporaneo per quanti transitano dall’Italia in cerca di salvezza.

Qui Fortuna – ragazzina etiope di 14 anni, femmina e per di più “minore non accompagnata”, fattori di massima attaccabilità nel mondo che ci circonda – prega in un anfratto nella roccia accanto a una statua della Madonna, perché non l’abbandoni e accolga il segreto che porta in grembo, in seguito a un rapporto – intriso di disparità e di violenza di genere – con un uomo di ventisei anni, anche lui rifugiato presso il convento. Un portafotografie con le immagini dei suoi di cui non sa più nulla, una lampada accesa a riscaldare il gelo impietoso dell’inverno in un Paese totalmente altro dal suo, Fortuna si prende cura di un pulcino, infreddolito e solo come lei, e di un asino, al cui pelo morbido si abbarbica, desiderosa dello sguardo caloroso e puro dell’animale.

Oltre una narrazione “dei migranti” generalizzata – dai cui pericoli ci aveva già messo in guardia Susan Sontag – rivendica la propria irriducibile unicità. Ancora intimamente bambina, eppure forzata dalle circostanze a mutarsi presto in donna, ci chiama da un universo claustrofobico di vuoto e di abbandono, ombre e luci affilate e uso quasi esclusivo di camera fissa. Nel frattempo i monaci – guidati dall’abate (Bruno Ganz, in un’ultima interpretazione, un lascito toccante per tutti), tra regole come geometrie spaziali occlusive, si interrogano sulla loro reale capacità di aprirsi e mettere in pratica i precetti evangelici di accoglienza in conflitto con le loro scelte contemplative, sul male compiuto dalla Chiesa in nome di dio e su come si possa supportare davvero un altro essere umano senza imporgli il proprio modo di vedere le cose…“Davanti al nostro Mediterraneo insanguinato, ai corpi senza nome, mi sono chiesto quali siano le nostre responsabilità e cosa possiamo fare per uscire da questo atroce stato di impotenza. Da queste domande ho iniziato a scrivere Fortuna.

Senza demagogia, ho cercato di aprire uno spazio di riflessione per capire come possiamo evolvere”, ci ha raccontato Germinal Roaux, che ha approcciato il cinema dopo un lungo apprendistato nella fotografia, concepita solo come sguardo in bianco e nero. “I miei film nascono sempre da un incontro con il reale. Così è stato per il precedente Left foot right foot, che indagava le zone oscure dell’adolescenza. In questo caso, grazie alla mia compagna, attivista in un centro per ragazzi stranieri in difficoltà, mi sono imbattuto in diverse storie di migranti non accompagnati e in particolare in quella di una ragazzina che durante il suo esilio era rimasta incinta. Poi, quando ho saputo che, a causa della carenza di posti nei centri, i monaci del monastero di Einsielden avevano accolto alcuni rifugiati, ho deciso di girare il film all’asilo di Simplon, dove avevo già fatto un lavoro fotografico.

A quel punto, mi sono messo a raccogliere tanto impressioni in colloqui con minori non accompagnati, rifugiati, educatori religiosi, quanto sogni e visioni, poesia”.

Gli chiediamo poi del suo incontro con la giovanissima interprete etiope, Kidist Syum Beza, che racchiude insieme la fragilità delle bambine sotto attacco sul pianeta e la forza spirituale delle donne che sanno toccare, anche a causa del dolore e dell’emarginazione subita, l’essenza di sé. “Cercavo una ragazzina che portasse ancora tracce delle sue origini africane. Dopo ricerche in Francia e Africa occidentale, ad Addis Abeba abbiamo trovato Kidist. Ci ha toccato proprio quello che dicevi, la sua forza splendente, a dispetto della sua fragilità esteriore. Aveva un fuoco dentro. Con lei ho preferito lavorare senza darle la sceneggiatura: ci siamo ispirati al suo modo reale di pregare, mettendoci in attesa dei suoi gesti, in modo quasi documentaristico”. E con Bruno Ganz, l’altro polo di ricerca spirituale del film? Nelle sue parole si guarda all’aborto non da un punto di vista cattolico, ma da quello del rispetto profondo delle scelte della donna, del suo sentire. “Ganz ha mostrato subito grandissimo interesse, anche per le politiche di accoglienza di Angela Merkel nel suo Paese.

A differenza di Kidist, voleva un testo preciso cui far riferimento. Così, ascoltando la musicalità delle sue interpretazioni in francese, ho elaborato le sue battute. Sì, il punto di vista di cui il suo personaggio si fa portatore prescinde dalla religione, per cercare di contattare la nostra essenza più squisitamente umana”.