Fortini, o dell’imperdonabile. Perdono e verità sono tra i lemmi più importanti del lessico poetico fortiniano: «Non è vero che saremo perdonati», si legge in «Prima lettera da Babilonia» (da Una volta per sempre, 1963); «Ma la verità non perdona», risponde, a distanza nel tempo, un verso di «Considero errore…» (nell’Appendice di light verses e imitazioni che chiude l’ultimo libro di poesie: Composita solvantur, 1994). Il perdono (anzi, la negazione del perdono) e la verità sono figure etiche e ideologiche tra loro connesse, specialmente nella poesia di Fortini. Ma la ricerca di una verità e la sua antagonistica affermazione non portano ad alcuna conciliazione; implicano piuttosto la necessità del rilancio, il gesto del confronto, al limite la tregua provvisoria. Fortini, perciò, non è uno di quegli imperdonabili a cui Cristina Campo intitolava un suo saggio famoso: non c’è in lui la velleità di fissare con occhi puri la bellezza cacciata dal mondo; non c’è, in particolare, la difesa dell’impassibilità come valore. Fortini non fu mai impassibile, specialmente di fronte alle urgenze storiche e civili, come illustrano gli scritti, i versi e la sua stessa esperienza. Fu semmai costante. Ci sono in lui, però, altre qualità dei cosiddetti imperdonabili: soprattutto la chiarezza, rivolta anche verso sé stesso. L’io dei versi di Fortini non si percepisce solo come il depositario di verità da impartire, ma anche come incarnazione, spesso dolorosa, di verità di cui convincere e convincersi per via di provocazione: «Com’è chi per sé vuole più verità / per essere agli altri più vero e perché gli altri / siano lui stesso, così sono vissuto e muoio» («Il comunismo»). Il primo a non essere perdonato, né perdonabile, è Fortini stesso, come rivelano i suoi esami di coscienza, condotti per le interposte persone degli ‘amici’, degli interlocutori costantemente interpellati e spesso appunto provocati. Tra questi c’è Sereni. Fortini gli dedica «A Vittorio Sereni» (in Questo muro), ma soprattutto la splendida, l’intollerabile «Leggendo una poesia» (in Paesaggio con serpente): «Non ho mai capito gli altri né me stesso / ma il modo che ho di sbagliare questo sì. Se mi arriva / una verità è nel mezzo della fronte: è / un’accusa. Ragiono / senza comprendere. Mai sono dove credo».

Bisogna ripercorrere l’intera opera in versi fortiniana per cogliere meglio gli elementi di continuità e di frattura lungo la linea di queste e altre ricorrenze verbali e tematiche; oggi finalmente, a vent’anni dalla morte dell’autore, possiamo farlo con più sicurezza, grazie al volume curato da Luca Lenzini, tra i maggiori e più sensibili studiosi fortiniani, nonché coordinatore del Centro intitolato allo scrittore presso l’Università di Siena: Franco Fortini, Tutte le poesie, «Oscar» Mondadori (pp. LXIV-881, euro 22,00). Colpisce – impossibile non notarlo – che la prima raccolta completa di uno dei maggiori poeti italiani del secondo Novecento non esca nei «Meridiani» (collana nella quale era apparso, nel 2003, il volume dei Saggi ed epigrammi fortiniani, sempre a cura di Lenzini), ma in una sede destinata a un pubblico largo e che perciò non contiene apparati critico-filologici. La deprecazione, legittima, rischierebbe tuttavia di far passare in secondo piano l’importanza di quest’«Oscar» (che prosegue la serie «Poesia», nella quale pure sono apparsi di recente commenti e edizioni di riferimento per rileggere il Novecento). La raccolta comprende l’intera opera poetica di Franco Fortini, da Foglio di via a Composita solvantur, compresi il cospicuo quaderno di traduzioni (Il ladro di ciliegie e altre versioni di poesia, 1982), i Versi primi e distanti 1937-1957 (pubblicati in edizione non venale nel 1987) e le Poesie inedite uscite da Einaudi a cura di Mengaldo. Per la lezione dei testi inclusi nei primi libri (Foglio di via, Poesia e errore, Una volta per sempre, Questo muro), Lenzini si è basato sulla raccolta einaudiana del ’78; per quelli, oltre che per Paesaggio con serpente e Il ladro di ciliegie, ha tenuto conto anche della varianti apportate dall’autore nell’antologia dei Versi scelti (Einaudi, 1990).

Proprio Versi scelti e la precedente raccolta del ’78 erano fino a oggi le edizioni (ormai difficilmente reperibili) in cui leggere Fortini. Il guadagno portato ora dal volume di Tutte le poesie non è calcolabile solo in termini quantitativi, ma si misura anche in termini di comprensione del percorso fortiniano. A cominciare dalla più apparentemente ovvia, tautologica considerazione: cioè che Fortini è un poeta. E un poeta memorabile: va detto a beneficio di quei lettori, i più giovani e gli studenti in particolare, che hanno avuto accesso fin qui con più facilità agli scritti saggistici e agli epigrammi (spesso folgoranti, ma nel complesso responsabili di un’idea parziale di Fortini: il ‘piantagrane’, tutto idiosincratico e umorale, in cui si identificano gli intellettuali arrembanti che esibiscono come lasciapassare gli animi fortiniani, fraintendendoli). Che Fortini, adorniano e marxista eterodosso, sia stato anche un grande critico e un grande polemista è fuor di dubbio: basta non far dipendere troppo la poesia dalle altre componenti del suo lavoro intellettuale (e viceversa).

La seconda considerazione riguarda la tenuta di quella poesia, che nei decenni non ha ceduto alla tentazione di rovesciare il guanto, di involvere verso la rarefazione o verso l’oltranza espressiva. Le risorse retoriche di Fortini si precisano nel tempo ma non si smentiscono; tra queste, specialmente nelle prime raccolte, c’è il ricorso alle figure di ripetizione, usate per conferire al discorso la perentorietà epico-sacrale della formula (con una funzione, perciò, quasi opposta a quella dell’iterazione in Sereni): se è vero, come ha scritto Raboni, che Fortini è un «poeta essenzialmente metrico», è vero anche che tale qualità dipende dalla necessità di articolare la forma in strutture nette (quasi il correlativo formale della sua tensione verso la verità). Nette, non esibite in volute manieristiche. Quello di Fortini è uno stile disciplinato, che si eleva basandosi più sulla costruzione che sull’espressività.

Da qui occorre procedere alla terza considerazione indotta dalla rilettura dell’opera in versi: la sostanziale autonomia dai modelli italiani storicamente influenti. L’estraneità di Fortini all’ermetismo sembra innata alla sua scrittura; aspetto questo che appare tanto più notevole quanto più si pensa alla sua età (nato nel ’17, Fortini è quasi coetaneo di Luzi, Bigongiari, Parronchi) e alle sue origini fiorentine. Ma Firenze, che nelle poesie fortiniane resta per lo più il luogo dell’elegia (pensiamo a «Camposanto degli Inglesi» o a «Nella mia casa di Firenze»), fu comunque imprescindibile: come spiega Lenzini, nella sua bella, lucida introduzione, il «carattere velleitario e regressivo», percepito nella cultura fiorentina dei primi anni di formazione, alimentò in Fortini quasi un senso di colpa e un conseguente risentimento verso un’aristocrazia intellettuale dalla quale si tenne distante, ma da cui pure si sentì contaminato, per certi residui di estetismo. Lontano è anche Montale, di cui Fortini risente, sì, ma nei tratti esteriori: la mise en page dei mottetti, ad esempio, può aver agito su certi componimenti di Foglio di via (soprattutto le Elegie); così come il formulario sintattico-lessicale di Ossi, Occasioni e Finisterre può aver inciso nei timbri e nei ritmi, nell’energetica del verso (emblematica è «Guarda questa rena», in Poesia e errore: «Umida l’ala che ora s’allenta / elitra nel mezzodì sarà come stocco di spiga secante»). Ma sono forme di memoria pratica, che non implicano un’adesione né al sistema retorico-stilistico, né alla disposizione conoscitiva e ideologica di Montale. Valgono più per distinguere che per assimilare. L’«Oscar Mondadori», che rende disponibile e fruibile l’opera in versi fortiniana, contribuisce a metterne a fuoco proprio i caratteri distintivi e a verificarne la consistenza piena; senza, con ciò, monumentalizzare il poeta Fortini (vorrei dire ancora: senza perdonarlo, canonizzandolo), ma rimettendone in gioco i valori, lasciandoli tornare in circolo.