Il capitolo delle esplorazioni per una maggioranza fra centrodestra e Cinquestelle è chiuso. Il Quirinale prende atto, dalle stesse parole della presidente Casellati, che non è praticabile perché pur avendo fornito «spunti di riflessione politica», dice, lei ha evidenziato anche «la diversità di opinioni». Un forno dunque è chiuso, per dirla in termini poco quirinalizi.

MATTARELLA VIENE descritto con eufemismi presidenziali, ma nella sostanza contrariato e amareggiato dall’inconcludenza degli autoproclamati vincitori delle elezioni. Non fa comunicati ufficiali e si prende due-tre giorni di riflessione. Fino a lunedì. Quando, al netto di fatti nuovi, farà un altro passo dell’ordinato percorso istituzionale che sta seguendo per provare a dipanare la matassa imbrogliata e forse inestricabile del prossimo governo.

E IL NUOVO PASSO sarà, sembra ormai certo, un mandato esplorativo «simmetrico» a quello appena consumato al presidente della camera Fico. Viene escluso un incarico «al buio» a Matteo Salvini, che pure si è fatto avanti: se non ci sono i numeri l’eventualità non è neanche presa in considerazione. Se non bastasse tutto il resto, c’è il precedente di Pier Luigi Bersani nel 2013: Napolitano non gli dette l’incarico pieno perché, pur avendo la maggioranza alla camera, non ne aveva una sicura al senato.

DUNQUE DA LUNEDÌ potrebbe toccare a Roberto Fico. L’esplorazione potrebbe durare un giorno in più della precedente perché in mezzo cade il 25 aprile: una giornata in cui l’inquilino del Colle è impegnato nelle celebrazioni della Liberazione. Sarà un incarico simmetrico a quello di Casellati, con ogni probabilità: e cioè per verificare la possibilità dell’altra alleanza che sulla carta può avere i numeri per una maggioranza e un governo, quella fra M5S e Pd. Un’altra strada tutta in salita. Perché nonostante alcuni esponenti della minoranza Pd si siano in questi giorni sperticati nelle lodi del «grillino di sinistra – per esempio la ministra Finocchiaro – ieri i renziani si sono scatenati contro il «tango» (copyright Emanuele Fiano) fra grillini e leghisti: «Hanno stufato», attacca Dario Parrini, «Inquieta la trasformazione del M5S, siamo passati dai PiDioti a interlocutori possibili. Volevano fare un referendum per uscire dalla Nato, ora sono fedeli al Patto Atlantico, cosa gli ha fatto cambiare idea?».

L’ESPLORAZIONE DI FICO, a leggere i segnali e le mezze parole che escono dal Nazareno, non andrà a segno. O almeno non subito. Prima l’ipotesi di un governo fra M5S e Lega dovrà essersi definitivamente e platealmente sfracellata. Poi dovrà uscire di scena la premiership di Di Maio, condizione «si ne qua non». Servirebbe un premier «terzo», al quale le due forze non potrebbero dire di no (tre in realtà: nel caso è certo che anche Liberi e uguali, tutta o in parte, cercherebbe di essere della partita).

Ma sarà sul «merito» che i dem metteranno i paletti: un programma di riforme che non cancelli tutta la stagione renziana e che parta dalle proposte del reggente Martina: reddito di inclusione, assegno universale per le famiglie con figli e salario minimo legale. Una proposta non a caso giudicata dai fedelissimi di Renzi più «intempestiva» che sbagliata.

E COMUNQUE DEBOLE se proposta da Martina senza l’avallo ufficiale e pubblico del vero regista del Pd, Matteo Renzi. Che portando a segno questo clamoroso «cambio di verso» potrebbe rientrare in partita come salvatore della patria (sulla salvezza del Pd resta qualche dubbio). C’è chi spiega di aver ascoltato un ex segretario inspiegabilmente attento alle perorazioni di apertura del dialogo con i 5 stelle. C’è chi lascia scivolare che da non specificati ambienti renziani c’è persino un filo di comunicazione con la Casaleggio Associati. Mediato da alcuni passaggi intermedi. Niente di politico per ora.

NIENTE ANCHE CHE TROVI conferma ufficiale, ovviamente. Restano invece agli atti le posizioni pubbliche di chi – Orlando, Franceschini, Emiliano – dall’inizio chiede di abbandonare la linea dell’«arrocco» imbullonata da Renzi al momento delle dimissioni. Una linea che tiene ancora, ma sempre più a fatica. E che in questo Pd senza leader alternativi, solo Renzi che l’ha fatta può smontare.