«Formiche», le vite dei migranti rinchiusi tra le frontiere
Intervista Valerio Nicolosi racconta il suo film che raccoglie esperienze del «game» lungo la rotta balcanica e non solo
Intervista Valerio Nicolosi racconta il suo film che raccoglie esperienze del «game» lungo la rotta balcanica e non solo
«La politica oggi è fatta di corpi. Non si può parlare di diritti se non si passa attraverso questi corpi». A parlare è Lorena Fornasir, triestina fondatrice dell’associazione Linea d’Ombra. Ogni pomeriggio con altri volontari alla stazione attende i migranti che riescono a passare il confine. Si prendono cura dei lori piedi «da trincea». «I piedi sono la parte più bassa del corpo, sostengono la persona. Curando le loro ferite, puoi alzare lo sguardo: incontri qualcosa che ha a che fare con l’intimità, con il soggetto. In questo riconoscimento reciproco passano tante cose, anche la storia di una persona».
SCARPE spaiate, sentieri di montagna, natura profonda che finisce col filo spinato. Volti, occhi che chiedono aiuto in mezzo al mare scuro, nel cuore della notte. Mani che preparano da mangiare in terra, sotto tende di fortuna. Bambini che giocano a palla, tra polvere e spazzatura, nel campo profughi più grande d’Europa. È un pugno nello stomaco Formiche – il titolo è un’azzeccatissima citazione da Grapes of wrath di John Steinbeck letta da Bruce Springsteen in apertura -, documentario di Valerio Nicolosi prodotto da Dazzle Communication, patrocinato da Amnesty International, uscito nelle settimane scorse, in cui l’argomento migrazione è tornato al centro del dibattito pubblico. Un viaggio tra persone «in transito», attraverso paesaggi e frontiere della nostra disumanizzata Europa che, come dice una delle giovani funzionarie di Open Arms intervistate, «sta privilegiando le politiche europee per i cittadini europei sulle vite di persone non europee».
La più grande amarezza è vedere ciò che abbiamo costruito oltre i muri della «fortezza Europa», la volontà politica di chiudere ogni porta Valerio NicolosiGiornalista, regista e fotografo freelance (Roma, classe ’84), da oltre dieci anni Nicolosi documenta sul campo crisi umanitarie e rotte migratorie, di recente ha pubblicato per Rizzoli Il gioco sporco- l’uso dei migranti come arma impropria. «Dai campi rom di Roma, mi sono sempre occupato di queste tematiche. Il lavoro è sempre stata una questione politica», dice raggiunto al telefono. Formiche, film asciutto e diretto, che si nutre di immagini potenti e poche, mirate prese di parola di alcune tra le decine di storie in cui il reporter si è imbattuto, mette insieme il materiale raccolto dal 2018 al 2021 in diverse missioni. Si parte dalle operazioni di salvataggio di una nave di Open Arms, dove una funzionaria spiega come le Ong siano state lasciate sole a operare in un tratto di mare di oltre 350 mila chilometri. Si prosegue nell’inferno dei campi profughi sull’isola di Lesbo dopo l’incendio del settembre 2020: qui una dottoressa racconta di aver registrato il più alto tasso di suicidi infantili della sua carriera. Viene mostrata la crudeltà del «game», tentativo di attraversamento dei confini tra Bosnia Erzegovina, Slovenia, Croazia, verso l’Italia: si può essere respinti anche più di dieci volte dalle botte della polizia. «Si sa tanto del Mediterraneo centrale: si sanno cose spesso sbagliate. E si sa poco o nulla della rotta balcanica. Possiamo chiamarlo ’presidio delle frontiere’. Le ho vissute per anni entrambe, volevo raccontarle in maniera approfondita, dare un taglio sulle storie in modo che lo spettatore possa capire che sono persone come noi. Il tema migratorio è stato de umanizzato e politicizzato. Ho cercato di fare il contrario».
Nicolosi spiega come la Grecia sia il primo Paese di accesso in Europa. «Le grandi rotte arrivano da Medi Oriente e Asia. Chi scappa fugge dalle guerre civili di Afghanistan, Siria, Iraq, Gaza; a questi si aggiungono i migranti climatici del Pakistan. Dalla Turchia partono anche molte persone nord africane. Vanno in Egitto via terra, prendono un aereo, arrivano a Istanbul. Qui inizia la rotta balcanica: un lungo, silenzioso martirio che può durare anche 4 anni».
LE POCHE, dense storie, sotto forma di interviste (l’esito ci viene dato alla fine, di molti di loro si sono perse le tracce), convergono su una granitica certezza: per queste persone non c’è un piano b. L’obiettivo, costi quel che costi, è iniziare una nuova vita, «oublier» – questo il termine usato da Ortensia, una delle tante donne vittime di stupro in Libia, salvata dall’intervento di Open Arms – «dimenticare». Così intere famiglie tentano e ritentano il «game» con bimbi e anziani a carico, cibo e acqua razionati. Spesso senza neanche un navigatore: la polizia, quando li trova, distrugge tutti i dispositivi elettronici in possesso dei migranti, come mostra Mustafa, membro di una famiglia curdo-irachena.
DICE ancora il regista: «Ho camminato con loro per ore in mezzo a una montagna piena di mine ereditate dalla guerra in Jugoslavia. Ho portato una delle bambine sulle spalle. Aveva sei anni: ha trascorso più della metà della sua vita in viaggio. La più grande amarezza è la consapevolezza di quello che abbiamo costruito oltre i muri della «fortezza Europa». Dietro tanto dolore c’è una volontà politica di chiudere le porte a persone che avrebbero diritto di poter entrare, farsi una vita. Persone che vivono un inferno creato da noi». Come formiche.
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