Intervistato da Sarah Moldoror nel documentario Le masque des mots, Aimé Cesaire disse nel 1987: «Vivo nella storia, ma Haiti mi ha sconvolto». Sono tutti ambientati tra Haiti e Miami («una città antillana» secondo Cesaire) i personaggi dei racconti di Edwige Danticat, raccolti in La vita dentro (traduzione Velia Februari, Sem, pp. 200, € 18,00). Le loro storie d’amore, di tradimenti e, soprattutto, di morte – temuta, immaginata, percepita – sono ambientate in un contesto davvero «sconvolgente», tanto per la frequenza dei terremoti e di altri cataclismi naturali quanto per lo strascico di terrore e di miseria lasciati dalla crudeltà e dalla violenza dei regimi dittatoriali, cui si aggiunge il pesante influsso delle varie religioni che si sono via via avvicendate.

Non ancora nota nel nostro paese, Danticat – che ha alle spalle una carriera ventennale e ha raggiunto il successo negli Stati Uniti con due memoir dal titolo emblematico: Fratello, sto morendo e L’arte di morire – propone una galleria di figure, prevalentemente femminili, che le consentono di riflettere in forma narrativa sul modo in cui si viene a patti con la fine della propria e dell’altrui esistenza. Nel racconto che apre la raccolta, «Dosas», la protagonista, una giovane haitiana che accudisce malati terminali a Miami, è vittima di una truffa ordita dall’ex-marito e dalla sua migliore amica, i quali inscenano un falso rapimento avvenuto ad Haiti, facendo leva sul terrore suscitato dalla pericolosità del paese. In un altro racconto, titolato «Ai vecchi tempi», una figlia che aveva fin lì quietamente vissuto senza il padre, dal quale era stata rifiutata fin dalla nascita, viene da lui chiamata al suo capezzale; ma l’uomo si spegnerà prima di conoscerla.

Alla compagna che vorrebbe organizzare un rito funebre secondo le antiche tradizioni locali, la figlia risponde decidendo di non partecipare al funerale: «Non potevo», riflette. «Non l’avevo visto né vivere né morire perciò nel migliore dei casi sarei stata una presenza sconosciuta, nel peggiore un’intrusa.» Così, proseguendo nelle varianti con cui la morte può irrompere, improvvisa, in un’esistenza, un altro racconto ruota intorno a una giovanissima cameriera malata di Aids che trova giovamento nei placebo di un medico ciarlatano; una donna che sperava di tornare a una relazione con uomo sposato interrotta qualche anno prima si vede impedita dagli esiti del tremendo terremoto del 2010; il difficile rapporto tra una madre ai primi stadi di demenza senile e la figlia in preda alla depressione post partum sfocia in un gesto inconsulto. E nell’unico racconto il cui protagonista è maschile, un immigrato clandestino rivive il proprio approdo sulla costa statunitense e l’incontro con la donna che l’ha soccorso, mentre sta precipitando, accidentalmente, in una betoniera.

L’abile uso del flash back permette all’autrice di allargare la propria visione oltre l’epifania di quanto accadrà, sottolineando al tempo stesso scarti non solo temporali ma soprattutto spaziali: dal passato haitiano al presente metropolitano di Port au Prince o di Miami o anche di New York. E mentre mantiene un abile distacco dai suoi personaggi, anche quando li fa raccontare in prima persona, Edwige Danticat prova per il loro destino quella commossa empatia che si traduce, in chi legge, in profonda emozione e coinvolta partecipazione.