Dopo una comunicazione mediatica un po’ spericolata e forse sfuggita di mano, che ha rischiato di offuscare i veri dati scientifici dello scavo in corso al Foro Romano, ieri finalmente sono stati presentati i risultati della prima campagna di ricerche condotte dal novembre 2019 nell’area antistante la Curia Iulia, presso il portico d’ingresso. Con i giusti toni non più da scoop ma da studiosi che formulano ipotesi verosimili ed elettrizzanti.

COME HA SPIEGATO Alfonsina Russo, direttrice del Parco archeologico del Colosseo, si è tornati a indagare lì dove già nel 1899 l’archeologo Giacomo Boni aveva rinvenuto un ambiente ipogeo con una «cassa a vasca rettangolare in tufo, lunga 1,40 larga m.0,70, alta m.0,77, di fronte alla quale sorge un tronco di cilindro in tufo, del diametro di m.0,75». Dentro, c’erano ciottoli sparsi e alcuni pezzi di vasi grossolani. Boni lasciò in disparte quella scoperta, anche perché da approfondire c’era il Lapis Niger (dal marmo nero che delimitava la zona, luogo in antichità considerato nefasto e collegato alla morte di Romolo) e il Comitium (centro pulsante delle assemblee cittadine).
Quel ritrovamento intrecciato a una Roma che affondava quasi nella leggenda è stato ricordato in tempi più vicini a noi da Paolo Carafa nel suo Il Comizio di Roma dalle origini all’età di Augusto (L’Erma di Bretschneider, 1997): solo che non si sapeva più se lo scavo condotto da Boni esistesse ancora. Negli anni Trenta, infatti, la scalinata di accesso alla Curia Iulia realizzata da Alfonso Bartoli (quando fu richiamata alla luce la Curia cesariana e demolita la chiesa di san Adriano) aveva nascosto del tutto quell’ambiente ipogeo precedentemente riaffiorato.
Ma, come riscoperto grazie agli scavi recenti seguendo le istruzioni di Giacomo Boni e cercando di «leggere» in maniera filologica i suoi disegni, gli archeologi del Parco del Colosseo – in primis Patrizia Fortini – hanno potuto ritrovare intatto quel vano, così come l’aveva descritto già centoventi anni fa il loro collega.

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BARTOLI L’AVEVA salvaguardato, proteggendolo con pilastri in mattoni e un solaio di travi in ferro. Era più grande in origine, ma fu tagliato per far posto alle fondazioni della Curia, che però mantenne due botole per accedervi.
Per riconquistare quello strato di una Roma perduta, si sono smantellate le scale riaprendo il percorso verso il basso.
Si trattava dunque del ricercatissimo sepolcro di Romolo? Non proprio. Attenzione agli abbagli a scapito degli studi storici, ha avvertito nei giorni scorsi Andrea Carandini, spiegando in un’intervista sul Corriere della Sera come le fonti antiche abbiano sempre collocato di fronte alla Curia Hostilia il probabile luogo dell’uccisione di Romolo, che oltretutto per tradizione ebbe il corpo smembrato (o addirittura fu assunto in cielo, divenuto eroe mitologico).
Eppure, come dimostra un video che ricostruisce l’area del portico della Curia e il vano sottostante in Laser scanner 3 D, quel sarcofago-vasca e l’elemento cilindrico sono in quota con i Rostra (le tribune oratorie dei magistrati) della fine del VI secolo a.C. Il tufo stesso della vasca proviene da una cava del Campidoglio, considerata tra le più antiche della città eterna.

LA DATA DI APPARTENENZA potrebbe allora essere il VI secolo a. C. e indicare in quel luogo – ma sarà l’analisi della stratigrafia nel vano ipogeo a fornire nuove informazioni nel proseguo dei lavori in aprile – l’esistenza di un monumento funerario, una sosta di pellegrinaggio per il culto e il «ricordo collettivo» della fondazione di Roma. Non la tomba di Romolo ma un memoriale più tardo, dove tributare onori e in cui oggi tornare per reimmaginare quei primi anni della nascita della città, così aggrovigliati tra leggenda e realtà.
Per il poeta Orazio, comunque, la sepoltura di Romolo non era molto lontana da lì. Seguendo la suggestione di Varrone, la volle «sognare» dietro i Rostra repubblicani.