Oggi lo scontro generazionale è un tema centrale in molti ambiti: tra millennials tecnologici e anziani analfabeti digitali, fra settantenni educati al liceo classico e giovani disinteressati alla storia e del latino, fra immigrati di prima e di seconda generazione. Eppure si danno anche possibilità diverse, specie per chi parla il linguaggio – universale quanto ricco di sfumature – della musica. Così al Parco della Musica di Roma venerdì sera il percussionista ventitreenne Simone Rubino ha travolto un pubblico folto di teste grigie con l’energia sprigionata da Veni, Veni Emmanuel, scenografico concerto per percussioni e orchestra di James MacMillan, che nei concerti dell’Accademia di Santa Cecilia è già un ritorno e nel mondo ha totalizzato centinaia di esecuzioni dalla creazione, nel 1992.

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Concentratissimo, in morbida “felpa nera da concerto”, Rubino, che interpreta ogni anno decine di pezzi nuovi, spesso scritti apporta per lui, guizzava con destrezza durante le cinque contrastanti sezioni del pezzo in una selva composta da batterie, gong, tamburi, xilomarimba, vibrafono, per raggiungere nel finale le campane tubolari issate dietro l’orchestra, con solennità dalla religione sacra. L‘esuberante carica umana di Rubino ha infiammato il pezzo di MacMillan, la scrittura virtuosistica sottratta alle pirotecnie di maniera. Perfetto l’accordo con l’austriaco Manfred Honek, che diretto una spigliata Sinfonia n.93 di Haydn, trascinando poi un’orchestra pronta e partecipe in una personalissima Settima Sinfonia di Beethoven, dai tempi serratissimi, increspati da scarti dinamici e rubati ‘viennesi’.

Proporzioni inverse nel pomeriggio di sabato alla Sapienza, con molti giovani a applaudire il duo pianistico di Carlo Ballista e Bruno Canino , che festeggiavano a un tempo il concerto 3000 della Istituzione Universitaria dei Concerti e i sessant’anni di gloriosa collaborazione, con tanto di brindisi finale. Quello di Canino e Ballista è un sodalizio nato quando proporsi in duo con musiche contemporanee, da Bussotti a Berio, repertori desueti e trascrizioni era un azzardo affrontato pressoché in solitudine. Nel frattempo il mondo è cambiato e i due pianisti, peraltro solisti e accompagnatori di successo, sono diventati due riveriti decani.

Eppure ascoltando sabato l’Albero di Natale di Liszt, le danze di Dvorak e di Brahms, il terso Schubert di Notre amitié est invariable come titolo-sugello, ben poco smalto, suono e precisione sembravano andati perduti nei sei decenni di carriera; sempre intatte classe, charme e esperienza, distillate nel gesto di questo inimitabile duo. Timidi e azzimati dioscuri di gran classe che, senza scordate le avventure musicali degli anni Settanta, oggi sembrano usciti dalla penna di J.K. Jerome, come anche il loro brillante Stravinsky, piccolo bis di saluto che naturalmente accettiamo solo come un arrivederci.