In questo periodo di contingentamenti e radicamenti obbligatori mi mancano le foreste del sud Italia. In particolar modo quelle calabresi, forse le nostre ultime vere foreste selvatiche, per estensione e ricchezza. Mi mancano gli spettacolari, scolpiti, pini loricati del Pollino, i torrionali pini neri della Sila, ma sarei curioso di andare in esplorazione fra i boschi e le montagne della Serra. Tutti luoghi che bene conosce un vero vagabondo silvatico dei nostri giorni, il naturalista Francesco Bevilacqua, l’autore di libri quali Montagne di Calabria, Genius loci. Il Dio dei luoghi perduti o il più recente Le fantasticherie del camminatore errante. Quando torno in Calabria rivivo ogni volta lo sconcerto del passare da una vera e propria rabbia che mi affiora osservando le invenzioni, chiamiamole così, delle locali architetture urbane e abitative – le case mai finite, le città di cemento, gestioni difficilmente concepibili in altre zone d’Italia, per non parlare di quella cattiveria del tutto ingiustificabile nei confronti degli animali, e basti pensare alle carcasse di cane abbandonate a lato strada, che restano lì fino alla decomposizione naturale.
Passare dalla costa al cuore della regione aiuta a mitigare queste sensazioni estreme, risalire i tornanti e avvicinarsi ai piccoli comuni interni, iniziare a lasciar svagare l’occhio fra le vaste foreste di certo lenisce.

In quindici anni di migrazione costante nei boschi italiani quel che ho potuto ammirare in Sila e nel Pollino restano fra gli spettacoli più sontuosi e splendidi. Certo amo le mie alpi, certo adoro le foreste Casentinesi, le faggete, i luoghi francescani, certi castagni e abeti e altri mastodonti arborei, certo i boschi del Trentino Alto Adige, i ficus australiani in Sicilia e Sardegna, gli uliveti salentini e quante altre meraviglie. Eppure, nell’unità delle foreste calabresi, nella loro unicità, risiede uno spirito davvero antico, un Dio tutto proprio.

La verticalità dei pini silani, la scultorea preistoricità dei pini loricati. O quel gioiello solitario che sta ai piedi di una scarpata, fuori l’abitato del piccolo comune di Curinga, nel catanzarese, il platano-grotta, per dimensione il maggiore platano orientale d’Italia, si racconta piantato circa un migliaio di anni orsono. E ancora: i faggi serpente di Cerchiara, ai 1800 metri del Piano di Acquafredda, cresciuti ondulatamente, gli enormi castagni di Grisolia, alberi dai tronchi larghi 12 e 14 metri, i più dimensionati d’Italia, a parte i siciliani, i faggi del Bosco Magnano a San Severino Lucano, o il monumentale faggio delle sei (qualcun dice sette) sorelle a Viggianello.
Certo, mentre restano impressi i dritti pini neri della Sila che si possono visitare a Fallistro, alti anche più di quaranta metri, lo spettacolo probabilmente più mozzafiato lo garantiscono i tronchi scolpiti dai secoli, dai lunghi inverni nevosi e dalla lingua dei fulmini dei pini balcanici che noi italiani abbiamo rinominato loricati. I due maestosi esemplari ai Piani di Pollino, nel comune di Terranova, i policormici – a più crescite – del Pollinello, nel comune di Castrovillari, le costellazioni di Serra Crispo – in una vera selva di esemplari vivi e spenti, battezzata Giardino degli Dei dall’escursionista e guida Giorgio Braschi, fra cui Titano o Giove o Zeus, gli sono stati attribuiti tanti nomi – e di Serra delle Ciavole. Campioni del genere, anche se non per questo i più belli da contemplare, i millenari Il Patriarca e Italus, che con i suoi 1200 anni è l’albero più annoso della regione ed uno dei più annosi d‘Italia. Cicatrici, squarci, rami saettanti, branche serpentiformi, cortecce squamose, le parole sono sempre troppo corte, troppo dense, o non abbastanza, per suggerire il caleidoscopio di emozioni e sensazioni che si sprigionano visitando questi luoghi altri, questi paradisi terrestri, che ancora sopravvivono in pieno Antropocene.

Il Bevilacqua ha dedicato tempo a ripercorrere i viaggi di Norman Douglas (1868-1952), autore britannico che ha lasciato il resoconto dei suoi viaggi nel quaderno Old Calabria (1915). Ecco come lo stesso britannico descriveva uno dei boschi magnifici ai primi del Novecento, a Gariglione, in Sila Piccola: «Era un autentico urwald o giungla vergine. Per quanto mi risulta non esiste nulla di simile da queste parti delle Alpi e nemmeno sulle Alpi stesse Gariglione era dunque una foresta vergine, mai sfiorata da mano umana: una macchia scura e ondulata, un impenetrabile groviglio di alberi costituito da garigli (Quercus cerris), da cui deriva il suo nome, da migliaia di abeti barbuti e da quell’antica vegetazione indigena che spunta faticosamente dal terreno umido in cui i suoi progenitori marciscono da secoli» (estratto dal volume Montagne di Calabria, Rubbettino, 2003).

Questo mondo è estinto. Il movimento ambientalista inizierà ad opporsi ai continui abbattimenti di ecosistemi dalla fine degli anni Venti, ma oramai parte del danno era stato compiuto. Un secondo disastro colpirà soprattutto la Sila nell’immediato dopoguerra, quando agli inglesi fu concesso, come risarcimento per i danni del conflitto, di abbattere i più alti pini neri, i cui legnami pregiati vennero inviati nei porti inglesi.

Per quanta meraviglia noi oggi possiamo fortunatamente ancora vivere camminando lungo i sentieri delle Serre, del Pollino o della Sila, quei veri giganti e quelle forre pre-contatto sono oramai soltanto frutto d’immaginazione, come avviene nella maggior parte delle altre latitudini. Inimmaginabili. I taccuini di viaggio del Bevilacqua sono emozionanti, puntuali le descrizioni degli ambienti che ancora adesso possiamo incontrare.

«Altro grande pino a candelabro sulla destra come sempre sostiamo ai suoi piedi parlando un po’ con lui, chiedendogli dei suoi innumerevoli anni trascorsi in quel luogo, delle tante stagioni che ha vissuto, delle bufere e delle tempeste, ma anche delle dolci giornate d’estate che lo hanno avvolto, degli uomini e delle donne che sotto la sua ombra hanno sostato» (Sulle tracce di Norman Douglas, Rubettino, 2012). Nonostante le grande devastazioni di cui siamo capaci, siamo una specie irrimediabilmente sentimentale.