Con le sue pubblicità Eni si propone agli occhi della collettività come una realtà attenta all’ambiente e al clima. Nella pratica il colosso petrolifero italiano sta invece continuando a proporre false soluzioni per combattere l’emergenza climatica per puntare ancora su gas fossile e petrolio. L’ultimo rapporto di Recommon e Greenpeace Italia sugli investimenti di Eni in progetti di conservazione delle foreste rivela ad esempio come questi siano l’ennesima operazione di greenwashing della principale multinazionale italiana.

Abbiamo analizzato come Eni sta usando lo strumento Redd+ (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation in developing countries) per compensare le copiose emissioni causate dalle sue attività estrattive, acquistando crediti di carbonio da progetti di conservazione delle foreste. Il funzionamento dei crediti di carbonio è simile a quello dei titoli azionari, ma invece di quote societarie essi rappresentano il diritto ad emettere CO2. Eni ha annunciato di aver siglato accordi per progetti Redd+ in vari Paesi dell’America Latina e dell’Africa, tra cui il Luangwa Community Forests Project (Lcpp), in Zambia. L’idea sarebbe che questi progetti (praticati da molte aziende, non solo da Eni) riescano a prevenire l’immissione di CO2 in atmosfera evitando la deforestazione: le emissioni di CO2 così “risparmiate” vengono contabilizzate dalle aziende a compensazione delle emissioni realmente effettuate.

La credibilità degli schemi di compensazione risulta però compromessa dal fatto che si basano su stime aleatorie, impossibili da verificare. Insomma: emissioni certe, compensazioni… forse. Che poi il REDD+ stia davvero tutelando le foreste sono rimasti ben pochi a crederci. Il Redd+ più volte ha causato impatti sulle comunità locali tradizionali e sui popoli indigeni “coinvolti” da questi progetti, ai quali succede spesso che non vedano riconosciuto il proprio diritto alla terra (blindata per esigenze di progetto) e, anzi, che essi vengano rappresentati come una minaccia per la biodiversità e per le foreste, a causa di pratiche culturali o di sussistenza che prevedono l’accesso alle risorse forestali. Oltre al danno la beffa.

I progetti di conservazione delle foreste nell’ambito del sistema Redd+ sono solo una delle tante bugie di Eni, che da vero campione di greenwashing, per raggiungere quel fatidico azzeramento di “emissioni nette” continua ad esempio a proporre anche tecnologie (vecchie di decenni e fino ad ora fallimentari) come la cattura e lo stoccaggio della CO2 (CCS). Comunicazioni verdi e investimenti neri che servono solo come alibi per continuare a bruciare gas fossile e petrolio.
Per questo motivo, per svelare il bluff dell’azienda e mostrare il vero volto del Cane a Sei Zampe alla vigilia dell’assemblea degli azionisti, tenutasi ieri a porte chiuse, attiviste e attivisti di Greenpeace dall’alba di martedì hanno portato nel laghetto antistante il palazzo di Eni un iceberg che si scioglie, a testimonianza dei drammatici impatti dell’emergenza climatica, dove sono rimasti a protestare per 30 ore. La mattina seguente, altri attivisti di Greenpeace hanno scalato il palazzo che si trova di fronte al quartier generale di Eni e dispiegato un enorme striscione sospesi a 50 metri di altezza con la scritta “Eni killer del clima”, per poi unirsi al presidio organizzato con le altre realtà ambientaliste tenutosi ieri in occasione della giornata dell’assemblea degli azionisti.

Non c’è alternativa: se davvero vogliamo evitare gli impatti più gravi della crisi climatica e salvare milioni di vite umane, occorre abbandonare gradualmente, ma in fretta, gas e petrolio e investire seriamente nelle rinnovabili. Non certo in modo marginale e accessorio come fa Eni.

* Direttore Campagne Greenpeace Italia