Cosa portiamo a Glasgow? Quali sono i progetti e qual è la posizione italiana, al di là dei proclami? Con quale percorso contiamo di arrivare al 2050 «net zero carbon»? Ci sono una serie di punti-chiave da chiarire.

IL PRIMO, E FORSE IL PIÙ importante, sta nella interpretazione della espressione «net zero carbon». Con questa espressione si intende dire che si può raggiungere la condizione emissioni zero in due modi. Il primo, il più ovvio e lineare è azzerando completamente le emissioni di gas serra. Il secondo invece contempla la possibilità di continuare a bruciare una certa quantità di fonti fossili, contemporaneamente piantando alberi che crescendo assorbano la CO2 prodotta.

C’È UNA FORTE SPINTA DA PARTE delle aziende grandi emettitrici di gas serra (Eni), aziende elettriche, cementifici, ecc.) di giocare sulla forestazione per compensare larga parte delle loro emissioni. Ma ci sono due problemi: la grande incertezza in merito alla quantità di CO2 effettivamente assorbita, nella maggior parte dei casi non verificabile, e l’assorbimento effettivo di CO2 fortemente ridotto dall’aumento degli incendi, causato del cambiamento climatico, dato che un bosco che brucia restituisce all’atmosfera la CO2 che aveva intrappolato. Inoltre c’è da tenere presente che la comunità scientifica vede la forestazione come strumento essenziale per avviare una progressiva riduzione della concentrazione della CO2 in atmosfera, ma dopo che saremo riusciti a non immetterne più di nuova. Solo in questo modo, infatti, si potrà fare rientrare il cambiamento climatico, con tutte le sue conseguenze nefaste. Non è dunque irrilevante sapere quale sarà l’atteggiamento del nostro governo, quale peso intendiamo attribuire alla forestazione nel nostro piano di decarbonizzazione, e quale posizione assumeremo in generale.

UN ALTRO TEMA DI FONDO è quello che riguarda il metodo di conteggio del contributo nazionale al riscaldamento globale. Solitamente, quando si considerano le emissioni di gas serra di un paese, vengono conteggiate quelle prodotte entro i suoi confini. Non vengono cioè prese in considerazione le emissioni, avvenute altrove, che sono state causate dalla produzione dei beni che quel paese ha importato: quelle chiamate emissioni incorporate nei beni.

La conseguenza di questo metodo di conteggio è che più un paese delocalizza la produzione dei beni di cui si serve, più delocalizza anche le emissioni prodotte, e nelle statistiche il suo contributo al riscaldamento globale diminuisce. Nello stesso tempo i paesi (di solito quelli poveri) nei quali la produzione è stata delocalizzata si trovano a produrre grandi quantità di CO2 per conto dei paesi ricchi. Per questa ragione è corretto assumersi l’onere di neutralizzare non soltanto le emissioni prodotte, ma anche quelle incorporate nei beni importati. Ebbene, qual è la posizione dell’Italia? Quale criterio di conteggio vogliamo usare per le nostre emissioni? Non si tratta di una questione irrilevante, nel definire i nostri impegni e in generale. Un ulteriore elemento critico è l’accumulo dell’energia elettrica. Critico perché la variabilità delle fonti rinnovabili principali, sole e vento, implica che a volte la produzione di elettricità rinnovabile è insufficiente e altre è eccessiva rispetto a quella che in quel momento è la domanda.

LA TENDENZA DA PARTE delle aziende che producono energia elettrica, e di quelle che estraggono e vendono le fonti fossili, è di compensare mediante centrali a gas i periodi di deficit di energia elettrica rinnovabile. È il caso della centrale a carbone di Civitavecchia che l’Enel vuole convertire a gas. Naturalmente se si procede in questa direzione, oltre a perdere l’energia elettrica rinnovabile quando è prodotta in eccesso rispetto alla domanda si ha un progressivo aumento del numero delle centrali di questo tipo, parallelamente alla crescita della potenza rinnovabile installata. Centrali che emettono CO2, rallentando il processo di decarbonizzazione. Diversa è la situazione se si punta sull’accumulo idraulico mediante pompaggio, cioè usando l’energia elettrica prodotta in eccesso per pompare acqua da un bacino più basso (può essere anche il mare) a uno più alto e poi recuperandola quando occorre facendo rifluire l’acqua in basso e facendole attraversare una turbina che genera elettricità. L’Italia, grazie alla sua condizione orografica e al fatto che è circondata dal mare, presenta un ampio potenziale di accumulo idraulico, in parte già esistente e fortemente sottoutilizzato. Quale è la strada che si intende percorrere? Quanto pesa l’accumulo idraulico negli impegni che prendiamo a Glasgow?

ALTRI DUE TEMI CALDI che hanno un forte impatto sul percorso di decarbonizzazione sono la CCS e il nucleare. Sulla CCS, cioè cattura della CO2 prodotta e suo sotterramento punta fortemente l’Eni, che in questo modo potrebbe continuare a estrarre e vendere gas, visto che la CO2 non andrebbe in atmosfera. Il progetto è quello di iniziare pompando nei giacimenti ormai esauriti dell’offshore adriatico la CO2 catturata dalle ciminiere delle industrie e delle centrali elettriche del polo di Ravenna. Da notare che in questo caso l’immissione di CO2 nel giacimento esausto permetterebbe di “spremerlo” recuperando una parte degli idrocarburi ancora sottoterra. Idrocarburi che naturalmente verrebbero venduti e bruciati generando CO2, col risultato paradossale che alla fine non c’è – o è irrisoria – la riduzione complessiva delle emissioni.

COME SI PONE L’ITALIA su questo tema, sia in casa propria che altrove, visto che si tratta di una strategia comune di tutte le aziende Oil&Gas del mondo? Si tratta di un tema di estrema importanza, considerata anche la posizione molto critica della comunità scientifica internazionale in merito alla sicurezza della CCS, alla sua validità sul lungo periodo, alla sua reale efficienza e al pericolo che la potenza delle lobby del petrolio e del gas possa indurre finanza e governi a deviare su questa tecnologia gli investimenti destinati alle fonti rinnovabili.

SUL NUCLEARE LA POSIZIONE ufficiale del nostro governo sembrerebbe di vigile attesa, stando alle ultime dichiarazioni del ministro Cingolani: aspettiamo l’evoluzione scientifica e tecnologica, e poi vediamo. Sembrerebbe una posizione del tutto equilibrata, ineccepibile, se non ci fosse di mezzo un problema: non c’è evoluzione tecnologica che possa eliminare la produzione di scorie radioattive nelle centrali a fissione, siano esse di terza o quarta generazione. E comunque oggi il costo del kWh nucleare è superiore a quello del kWh solare o eolico, pure includendo il costo dell’accumulo.

PER QUANTO RIGUARDA la fusione nucleare, al momento si tratta solo arma di distrazione di massa usata al fine di rallentare, differire l’avvio della transizione energetica basata sulle fonti rinnovabili, illudendo sulla imminente disponibilità di questa fonte energetica.