Guardando la mappa del Kenya la Foresta Mau appare più ampia e densa di quanto sia in realtà. Basta osservare le foto satellitari per accorgersi che la macchia verde scuro è una linea sinuosa assediata dai campi coltivati.
È una delle «Water Towers», le foreste pluviali montane del Kenya, custode delle sorgenti di alcuni dei principali fiumi del paese. L’area forestale, negli anni, si è deteriorata a causa della deforestazione, che ha lasciato spazio alle attività dell’uomo. La Foresta Mau è una delle più rilevanti, per tutta la Rift Valley. Ad ovest le acque che nascono dalla foresta alimentano il lago Vittoria. Dall’altro lato confluiscono nei fiumi che toccano aree turistiche come il Lago Nakuru. La zona più interna della foresta pluviale è caratterizzata da un’elevata biodiversità sia animale che vegetale.

La relazione tra la perdita del manto arboreo e la trasformazione dei bacini idrografici è evidente, come spiega Valerio Bini, presidente di Mani Tese e ricercatore per l’Università degli Studi di Milano: «La deforestazione massiccia nella zona ha un impatto sulla quantità e sulla qualità dell’acqua che arriva a valle». Le conseguenze si osservano nell’aumento dei fenomeni estremi: siccità e inondazioni. «Siamo in un momento molto fragile» sottolinea Valerio Bini e aggiunge: «La foresta ha senso fino a quando rimane ben collegata; in molti punti non lo è più».

Valerio Bini, insieme alla ricercatrice dell’Università di Padova Stefania Albertazzi e al fotografo Matteo de Mayda sono stati protagonisti dell’incontro Ambiente e diritti indigeni: la foresta Mau in Kenya, nell’ambito del Festival dei Diritti Umani che si sta tenendo a Milano. «Nell’incontro del 20 marzo abbiamo cercato di mostrare come la difesa dell’ambiente e la difesa dei diritti indigeni debbano andare di pari passo» spiega Valerio Bini.

Tra il 2000 e il 2001 per preservare la foresta il governo decise di sfrattare le persone che la abitavano. A queste popolazioni sono stati concessi due ettari di terra, in compensazione. I diritti violati, in nome della conservazione, sono stati quelli degli Ogiek, un popolo di cacciatori e raccoglitori, che aveva un impatto minimo sulla foresta. «Negli anni duemila la pressione antropica nell’area è aumentata» spiega il presidente di Mani Tese.

Si tratta di una zona molto ambita, non solo per le popolazioni originarie, ma anche per coloni venuti da altre aree del paese, alla ricerca di terre da coltivare. «Il Kenya ha trasformato gli Ogiek da cacciatori-raccoglitori, che vivevano nella foresta, a allevatori e contadini, che gestiscono collettivamente il manto arboreo attraverso le Community Forest Association» spiega Valerio Bini. Ai popoli indigeni viene garantito l’accesso alla foresta per i loro usi: raccolta delle piante medicinali, riti, produzione del miele e pascolo del bestiame. Il Forest Act, che disciplina questi diritti, non mette in discussione, però, la proprietà della terra: che rimane statale.

L’equilibrio costruito dopo il 2001 è molto fragile, sottolinea il ricercatore: «Quando la popolazione crescerà o si rafforzerà economicamente, vorrà aumentare il numero di animali e si intensificherà nuovamente la pressione sulla foresta». «In Kenya esiste un problema di distribuzione della terra, da un lato, e una popolazione in crescita, dall’altro» spiega Valerio Bini e aggiunge: «La terra è stata utilizzata a fini politici, per garantire il consenso». Secondo uno studio realizzato da Mani Tese e dalla Cooperativa Eliante, inoltre, l’estromissione degli Ogiek dall’area avrebbe reso la popolazione meno interessata alla protezione della foresta, perché meno connessa alla sua salute.
A circondare il manto arboreo non ci sono solo i nuovi coloni. A Ovest del corpo centrale della Foresta Mau sorgono numerose piantagioni di tè. Dall’anglo-olandese Unilever a Finlays, fino all’impresa parastatale Kenya Tea Development Agency. Si tratta principalmente di piccoli e medi produttori che lavorano a contratto per le grandi compagnie. Molte di queste terre sono frutto di acquisizioni risalenti all’epoca coloniale. Tra le piantagioni di tè che confinano con Mau, e hanno eroso l’area forestale, ci sono anche quelle appartenenti all’ex presidente keniota Moi.

Oggi a proporre un programma di conservazione della foresta è l’Initiative for Sustainable Landscapes che vede protagonisti: le aziende produttrici di tè, supportate dalla cooperazione governativa di paesi del Nord Europa, appoggiata da ministeri e agenzie statali keniote e dalla società civile. «Dalle loro ricerche emerge il nesso tra le piantagioni di tè e la Foresta Mau: se la foresta si degrada anche le piantagioni si degradano» spiega Valerio Bini.
Da qui nascono dunque i programmi, ben finanziati, di ristrutturazione e conservazione. «La responsabilità dell’erosione della foresta viene attribuita alle popolazioni locali ma le piantagioni di tè hanno contribuito al degrado dell’area» sottolinea il presidente di Mani Tese e aggiunge: «Questo ci mostra una sorta di cortocircuito in cui gli occupanti di un tempo diventano i difensori di oggi, con una retorica anti indigena».

Una sentenza della Corte africana per i diritti dell’uomo, lo scorso anno, ha riconosciuto il diritto degli Ogiek a vivere sulla loro terra ancestrale. Una sentenza che, secondo Valerio Bini, difficilmente vedrà la luce: «Vorrebbe dire rimettere in discussione tutta la questione della proprietà della terra, ridando agli Ogiek la possibilità di abitare la foresta».