Le minacce terroristiche islamiche per la Russia non provengono solo dal nord del Caucaso ma anche dai paesi dell’Asia centrale di cui sarebbe originario il giovane kirghiso individuato dalla polizia russa come presunto attentatore alla metro di San Pietroburgo.

NELLE REPUBBLICHE del Centro-Asia, e in particolare in Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan, si è assistito a partire dagli anni ’90 del Novecento a una ripresa della spiritualità e alla nascita di forti organizzazioni fondamentaliste islamiche.

Del resto la collocazione geografica dei paesi centroasiatici, confinanti lungo migliaia di chilometri con la Cina, la Russia, l’Iran e l’Afghanistan ne hanno fatto il magnete per molti gruppi islamici oltre a una rotta privilegiata del narcotraffico.

I regimi che si sono imposti in questi Stati dopo il crollo dell’Urss si sono contraddistinti spesso per nepotismo, corruzione e cattiva gestione della cosa pubblica, reiterando i vecchi vizi della burocrazia tardo-staliniana. Anzi, i nuovi regimi sono perlopiù governati dallo stesso personale politico di trenta anni fa che dismessi gli abiti del funzionario di partito ha assunto quelli del manager liberista.

DISOCCUPAZIONE endemica e collasso del vecchio welfare sovietico hanno spinto molta cittadini delle Repubbliche centroasiatiche a emigrare nelle metropoli russe europee dove occupano l’ultimo gradino della scala sociale. Uzbechi, kazaki, kirghisi trovano impiego nelle occupazioni più malpagate e faticose e diventano spesso obbiettivo di attacchi e pogrom xenofobi.

TUTTAVIA L’ELITÈ di questi paesi è rimasta tradizionalmente secolarizzata, non ha dichiarato l’Islam religione di Stato e ha mantenuto una netta separazione tra Stato e religione. L’obbiettivo era, ed è, impedire che emergesse una potenziale alternativa alla guida dei governi in carica. La collaborazione con le autorità russe ha permesso per molti anni che l’attività politica e militare dei gruppi armati islamici mantenesse una bassa intensità mentre l’infiltrazione in Russia di militanti jihadisti restasse un fenomeno limitato. La relativa influenza dell’islamismo radicale nella regione è stata per lungo tempo anche il prodotto delle divisioni interne di questi movimenti, spesso in lotta tra loro sull’interpretazione del Corano nel rapporto con la modernità, sull’uso della violenza come strumento di lotta. Malgrado ciò, il fallimento delle politiche di sviluppo economico, la mancanza di mobilità sociale e la repressione politica dei regimi governanti hanno dato nuovo impulso ai gruppi fondamentalisti della regione.

IL CASO DEL KIRGHIZISTAN è esemplare. Secondo l’Onu le infrastrutture sono al collasso come il sistema educativo, un terzo della popolazione vive sotto la linea di povertà, il salario medio si attesta a 190 dollari al mese. Circa il 20% della popolazione è emigrata in Russia e le sue rimesse alle famiglie rappresentano il 30% del Pil.

I FREQUENTI SCONTRI a carattere nazionalistico con la confinante popolazione uzbeka ha minato ancora di più la compattezza di una società in cui vivono decine di etnie diverse. I gruppi islamici rappresentano, per certi versi, un tentativo, seppur distorto, di dare coesione sociale al paese. Hizb ut-Tahrir, gruppo salafita che ufficialmente rifiuta l’uso della violenza ma che è stato messo fuorilegge per i suoi presunti legami con l’Isis può contare migliaia di sostenitori in tutto il paese. Lo stesso Isis ha fatto circolare nel 2015 nel paese un video propagandistico per il reclutamento in Iraq e in Siria.

IL 6 SETTEMBRE del 2016 nella capitale un’automba si è schiantata contro l’ambasciata cinese. Il giovane attentatore di 26 è stato identificato come un militante del Movimento islamico del Turkestan orientale. In questo contesto non può sorprendere che molti giovani della kirghisi, partire dal 2014, siano stati reclutati dall’Isis per combattere in Siria. Secondo fonti americane in Siria hanno preso parte al conflitto almeno 3-4 mila combattenti provenienti dai paesi del Centro-Asia di cui 800 dal Kirghizistan. Quel che sembra la fine del conflitto in Siria sta paradossalmente creando maggiori pericoli interni alla Russia di Putin.

GRAN PARTE degli ex combattenti impegnati in Siria stanno ora rientrando clandestinamente e riescono a trovare sempre di più proseliti tra i kirghisi, uzbeki, tagiki ormai da tempo stabilitisi in Russia. La recessione che ha colpito la Russia negli ultimi due anni non ha fatto che accrescere le aree di sofferenza e frustrazione tra i musulmani residenti (spesso naturalizzati russi) e dato nuova linfa ai gruppi estremistici.

Una risposta puramente repressiva del governo russo sarebbe miope e controproducente e potrebbe aprire nuove e più profonde tensioni in Russia e in tutto il «Vicino Estero».