Due cattive notizie che insieme ne fanno una mezza buona: il raduno dei Forconi di ieri a Piazza del Popolo è stato un flop clamoroso. Certificato dalle parole dello stesso leader Danilo Calvani che lo aveva voluto, aspettandosi non meno di 15 mila persone. Ma l’agricoltore pontino stavolta non potrà neppure negare che le 6-7 mila persone che lo hanno supportato ieri nella prova di forza, soprattutto interna al Coordinamento 9 dicembre, costituivano nel suo insieme una piazza fascista. Sì, fascista. Metà consapevole e organizzata, l’altra metà inconsapevole e allo sbaraglio. Sembrerà una semplificazione ma c’è poco da semplificare.

C’è poco da ridurre all’osso, perché l’osso è ciò che è rimasto nelle mani di questi «cittadini italiani» che alla spicciolata hanno raggiunto la Capitale portando accenti e istanze – reali – di ogni provincia italiana. Compositi ed eterogenei per provenienza geografica o per estrazione sociale, ma simili nel linguaggio e soprattutto nell’immaginario. Spogliati di ogni risorsa, culturale prima che economica, si nutrono ormai solo di semplificazione. «Italia, nazione, rivoluzione». «Tutti a casa», tutti «porci», «corrotti» e «criminali», l’«Italia agli italiani» e «che Dio ci benedica». «Se cado andate avanti», è il saluto mussoliniano di Calvani. Forse nessuno lo sa, ma infuoca gli animi come ai bei tempi. Non voleva simboli partitici nella piazza, Calvani, ma la piazza è tutta un simbolo: non solo i tricolori sventolanti, i bomber, le fiaccole o i cori da stadio, non solo l’iconografia inconfondibile dei militanti di Casa Pound implotonati in un consistente corteo che dalla sede di via Napoleone III ha attraversato la città per rinvigorire gli animi forconi che già poche ore dopo l’apertura dei balli sembravano fiaccati. Tra i tanti volti noti dell’estremismo nero che si mescolano alla folla, ce n’è uno anche sul palco, a presidio costante del microfono dove si susseguono gli interventi, inamovibile e inquietante figura che rievoca i tempi di Avanguardia nazionale.

Ma in piazza ci sono anche agricoltori sardi e laziali, commercianti bresciani, universitari milanesi, disoccupati abruzzesi e napoletani, piccoli imprenditori veneti e piemontesi, pensionati siciliani e calabresi, partite Iva emiliani o pugliesi. Padri separati e sul lastrico, alcolizzati ed emarginati sociali di ogni tipo. E poi ancora gli «Artigiani e commercianti liberi del Sulcis» arrivati a Roma anche per partecipare all’inaugurazione del nuovo movimento politico antieuropeista «Io cambio» guidato dall’ex presidente della Lega Nord, Angelo Alessandri. Nel convegno al Capranichetta, in piazza Montecitorio, la nuova formazione politica ha goduto della presenza anche del numero due di Casapound, Simone Di Stefano, sottoposto all’obbligo della firma per effetto della recente condanna per furto di una bandiera Ue.

Sono principalmente ex elettori delusi di Silvio Berlusconi, ma anche leghisti e grillini. Ma tutti si definiscono apolitici e apartitici. In piazza raccontano le storie di un’Italia povera e martoriata. Ce l’hanno con «l’Europa dei banchieri che ci sta uccidendo» ma anche con i «giornalisti cancro dell’Italia» (lavoro difficile per fotografi e cronisti, con momenti di tensione e perfino qualche violenza nei confronti di un paio di troupe televisive, compresa quella di Servizio Pubblico). I sardi si indignano per la loro isola «violentata dalle servitù militari», per «la Regione che prende dallo Stato milioni di euro per la continuità territoriale ma non è ancora capace di ottenere l’autostrada del mare che renderebbe competitive le nostre merci», e pretendono «a questo punto, l’indipendenza». C’è chi parla della «grande truffa del debito pubblico» e chi dei «mezzi di produzione che devono essere ad appannaggio esclusivo di imprenditori italiani residenti in Italia». Ma poi, quando salgono sul palco, la tiritera è quasi sempre la stessa: «Tutti marci e parassiti, tutti a casa, tutti in galera». Anzi no, «la galera costa troppo».

C’è chi invita i poliziotti ad «arrestare tutti i parlamentari», e in massa fischiano e insultano Giorgio Napolitano che Calvani definisce «un infiltrato, un buffone». Papa Francesco invece è «uno di noi»: a lui gli auguri del leader forcone, dopo il segno della croce, e i cori della piazza. Fratelli d’Italia e «poropoppò».

Che si tratti di Calvani o di Ferro, poco importa: si sono mobilitati perché «la misura è colma», il viaggio verso Roma ormai era pianificato e che i leader del Coordinamento si siano divisi non ha importanza. Qualcuno è disposto ad accamparsi in Piazzale dei Partigiani fino a domenica, aspettando il secondo round dei Forconi. Danilo Calvani però li gela: «Abbiamo detto che rimarremo qui ad oltranza fino alle dimissioni del governo. Sì, i presidi restano. Ma ora è Natale. Riprenderemo dopo le feste». La rivoluzione qualche volta ha bisogno anche dei pranzi di gala. «Viva l’Italia e che Dio ci benedica».