L’appuntamento è alle 9,30 nel loro ufficio: un piccolo spazio in condivisione a due passi da Porta Palazzo, tra i più grandi mercati all’aperto d’Europa, da sempre simbolo delle integrazioni e delle contraddizioni di Torino. «Ci lavoriamo anche in venti qui dentro», mi racconta Martina Ciafardoni dell’associazione Eco dalle Città, tra le capofila del progetto FoodPride. I FoodPriders recuperano cibo invenduto nei mercati e nei negozi di prossimità e li trasportano con biciclette e cargo bike verso punti di raccolta e distribuzione sparsi per la città. Qui, piccoli eserciti silenziosi di recuperatori si prendono quello di cui hanno bisogno, gratuitamente, e se lo portano a casa. Italiani e stranieri, soprattutto in difficoltà.

Il Pride del nome è l’orgoglio di fare qualcosa di realmente efficace per la lotta allo spreco, è un modello alternativo a quello dei bistrattati riders del food delivery, ma anche l’acronimo di Partecipare, Recuperare, Integrare, Distribuire ed Educare: buone pratiche per ridare dignità agli scarti e migliorare la dieta di chi si trova in uno stato di disagio economico. Il progetto, sostenuto dalla Compagnia di San Paolo, nasce dall’esperienza di diverse associazioni torinesi che da tempo, in modi diversi, salvavano dal macero pane, frutta e verdura ancora buoni.

TRA I FOODPRIDERS CI SONO ALCUNI VOLONTARI ITALIANI, ma in particolare richiedenti asilo: hanno tra i venti e i venticinque anni, arrivano da Ghana, Costa d’Avorio, Senegal, Gambia, Guinea, Congo, Nigeria. Loro sono conosciuti anche come Ecomori. Il nome l’ha inventato il giornalista e ambientalista Paolo Hutter, unendo il prefisso di ecologico a «moru», nero in piemontese.

Arrivo in bici: oggi sarò una FoodPrider anch’io. Prima di inforcare i pedali accompagno Martina «dall’indiano»: una panetteria dietro l’angolo che ogni giorno le regala pane fresco, pizze e focacce. «A volte è arrivato a darci trenta chili, non ti dico che fatica trasportarli». Qui, il titolare è indiano, il panettiere che impasta marocchino e dietro al banco ci sta un’italiana. L’anima di Porta Palazzo è tutta qui. Sono cinque le panetterie della zona che regalano i loro prodotti.
In ufficio intanto ci aspetta Albert. Sarà il mio Cicerone. Albert ha 25 anni, è gambiano, parla un italiano invidiabile grazie alla terza media e ai corsi professionali che ha potuto frequentare quando è arrivato nel nostro Paese. Fa il FoodRider da un mese, gli piace, si sente utile. Il suo compito è recuperare il pane invenduto ma ancora pienamente commestibile. Di solito il giro viene fatto alle sette di sera, ma ieri era festa quindi lo schema salta.

Partiamo: prima tappa Panacea, ospitata dentro la Casa del Quartiere di Via Baltea, spaccato multietnico di Barriera di Milano. Albert sfreccia con la sua bici gialla e il carretto attaccato dietro, ogni tanto controlla il cellulare: sta aspettando che gli dicano dove andare dopo. Spesso si volta e mi sorride, per assicurarsi che non sia rimasta indietro. Ci lasciamo alle spalle palazzoni popolari che portano i segni della fatica dei tanti migranti che ci hanno vissuto: prima i forestieri delle valli, poi i meridionali della Torino industriale, poi albanesi e rumeni e oggi i neri del Maghreb e dell’Africa sub-sahariana. Qua e là marchiati dagli evocativi, spesso provocatori, murales di Millo, street artist che racconta magistralmente il rapporto tra l’uomo, perennemente fuori scala, e il tessuto urbano che lo circonda.
Il profumo di pane inizia a sentirsi lungo la strada. «Panacea utilizza solo pasta madre a lievitazione naturale, che lo rende particolarmente nutriente e resistente, e farine a bassissimo impatto ambientale con scarso contenuto di glutine prodotte da una filiera cortissima», mi spiega Isabella. Non solo: i panettieri sono soggetti in condizioni di vulnerabilità sociale. Ora è il turno di due ragazzi richiedenti asilo. Sono contenti che gli scatti qualche foto mentre lavorano. Albert e Isabella pesano l’invenduto sulla bilancia: solo otto chili, poco rispetto al solito. «In genere riusciamo a regalarne almeno venti».

RIPRENDIAMO LE BICI. La seconda tappa è l’ex istituto per anziani Cimarosa, dove la cooperativa 360° gestisce un complesso residenziale che ospita dodici famiglie vittime di sfratto, metà italiane metà straniere: 56 persone in totale, di cui 28 minori. Nell’ambito di questo progetto di housing sociale opera anche la cooperativa Valdocco, che nell’altro braccio della struttura coordina un dormitorio che giornalmente accoglie circa cinquanta persone, soprattutto donne. Il pane di Panacea viene redistribuito prima di tutto qui. Io e Albert maciniamo chilometri, come schegge. Saltiamo la terza tappa, il Cecchi Point, la Casa del Quartiere di Aurora, solo perché oggi non c’è abbastanza pane da lasciare lì.

Albert è gentile e attento: mentre prendiamo qualche rosso (la strada è stranamente deserta), lo osservo: i suoi occhi nerissimi sorridono, ma non è difficile immaginare che racchiudano una storia di sofferenza. È arrivato in Italia due anni e mezzo fa, da solo. È passato dalla Libia, ma «mi è andata bene perché sono finito a lavorare nei cantieri fuori Tripoli». In Gambia aveva studiato Costruzioni, questo l’ha salvato dai campi di prigionia. La vita laggiù era dura: «I libici mi bloccavano per strada e mi rubavano tutto». Dopo due anni così, in cambio di un po’ di soldi, anche lui ha tentato la traversata del Mediterraneo. «Siamo stati quattro giorni in mare. Dopo circa tre ore di viaggio dal barcone guidato dai libici ci hanno spostato su un’altra barca: lì parlavano inglese». Erano i volontari di una ong tedesca che li hanno soccorsi e trasportati fino a Lampedusa. Albert è rimasto per una settimana in un centro di accoglienza. Gli hanno assegnato un numero: il 365. «Quando l’hanno chiamato ho capito che finalmente toccava a me partire. Mi hanno caricato su un pullman, senza dirmi nulla». A lui è toccata Torino. Ora vive vicino alla stazione di Porta Nuova assieme ad altri dieci ragazzi in un appartamento allestito dalla cooperativa Babel, che gli ha anche trovato il lavoro come FoodPrider.

QUANDO RIENTRIAMO IN UFFICIO troviamo gli altri FoodPriders pronti a insacchettare il pane e la pizza che abbiamo raccolto. Qualche pezzo se lo mangiano. Ne offrono uno anche a me. Buonissimo. Siamo pronti per andare al mercato di Porta Palazzo per la raccolta di frutta e verdura. Qui i FoodPriders allestiscono ogni giorno un banco dove poi avverrà la preparazione e la distribuzione delle cassette riempite con gli scarti. I ragazzi si infilano le pettorine rosse con davanti scritto «Senza frontiere, contro gli sprechi» e dietro «Sentinelle dei rifiuti«. Martina mi racconta che una volta una signora le ha confidato che credeva che i rifiuti fossero loro, le persone che vanno lì per recuperare il cibo.

Verso l’una e mezza inizia il consueto giro tra i banchi. Li accompagno. «Tutti ci hanno donato qualcosa almeno una volta, anche se chi regala di più sono gli arabi». Ci sono giorni che si riescono a recuperare anche trecento chili: «Un giorno – continua Martina – abbiamo raccolto 80 chili di broccoli. Io stessa me ne sono portata a casa 20 chili e li ho redistribuiti tra amici e parenti». Oggi c’è poca roba: vista la festa di ieri gli ambulanti hanno pochissimo invenduto. Le cassette si preparano con quello che c’è. L’unica regola da seguire è «butta solo se c’è la muffa, se è troppo ammaccato o troppo molle. Nel dubbio, assaggia». Le cassette si riempiono velocemente di zucchine, limoni, peperoni, pomodori, patate, mele, avocado e papaja.

Alle due e mezza scatta la distribuzione. Iniziano ad arrivare i primi recuperatori. Molti sono habitué, si conoscono, sanno che devono prendere un numero e mettersi in fila. Ma guai a chiamarli per nome, non vogliono: nessuno deve sapere che lo fanno. Alcuni sono come fantasmi, altri ti raccontano tutta la loro vita. Un giorno una signora si è portata a casa chili di mele e il giorno dopo è tornata con una torta, ovviamente di mele.

Davanti a me si materializza un’umanità varia. Ci sono diversi anziani: italiani, maschi, abiti logori, l’accento calabrese o pugliese. Anche due donne piemontesi, che però sembrano appartenere a una fascia sociale più elevata. Alcuni arabi di mezza età. Qualche donna col velo con bimbi al seguito, una ragazza africana, altre dell’est, rumene, che si presentano direttamente col carrello della spesa. Un uomo si vergogna a prendere il numero, mi guarda di sfuggita e manda avanti un altro per lui. Arriva anche una studentessa in bici che ha raccolto a sua volta un po’ di cibo: lo lascia qui perché venga aggiunto al resto e si porta via anche lei una cassetta. «Ci sono sempre più giovani che passano perché sanno quanto sia doveroso non sprecare», conclude Martina.

Secondo il Food Sustainability Index ogni italiano getta nella spazzatura non meno di 65 chili di cibo buono all’anno. A Porta Palazzo, solo nel 2018, grazie al progetto FoodPride sono state recuperate e redistribuite 60 tonnellate di prodotti ortofrutticoli che altrimenti sarebbero finite nell’immondizia. Questo ha permesso il sostentamento di più di 200 persone e contemporaneamente ha evitato l’incenerimento di 60 tonnellate di cibo, i cui costi economici e ambientali sarebbero ricaduti sui cittadini.