Quale effetto madeleine potrà innescare, lo si vedrà in futuro. Per ora, è un fenomeno sociale che necessita di interrogativi politici. Wordly Traditional. Food Box, solo chicche: crudo tuscany e mozzarella, handmade ravioli con ragù di coniglio e jalapeno, guancia di vitello a bassa temperatura con pesca e zenzero. Veloce e gentile mi raccomando, che una bella sorpresa ti attende. Buona pedalata!». Lo dice Faz, un’icona non solo gastronomica per chi vive la notte, a un rider – più o meno improvvisato – durante il lockdown Covid.

I PERSONAGGI, QUI SOPRA, SONO FRUTTO della fantasia, ma di quella appiccicata alla realtà che la fotografa nelle viscere. È uno stralcio di Foodification, come il cibo si è mangiato le città (Eris Edizioni), libro dei torinesi Marco Perucca e Paolo Tessarin che, attraverso un registro ironico narrativo, scava nelle derive della gourmet gentrification. Ovvero quando il cibo, meglio dire il food, cambia il volto di un quartiere espellendo i vecchi cittadini. Può davvero un astruso menù fusion, bilanciato tra global e local, gustato a un tavolino o direttamente a casa, scortato fino all’uscio da un moderno fattorino, divorarsi una città?

SI, SE REPLICATO QUASI ALL’INFINITO IN UNO SPAZIO circoscritto. I due autori si sono, infatti, chiesti cosa succede quando un quartiere si riempie di bistrot e si svuota di abitanti e cosa accade se l’economia di una città si basa solo sul settore gastronomico e dove prima c’erano eventi culturali e beni di prima necessità restano bar e locali per bere o mangiare. «La foodification – sottolinea Tessarin – è collegata alla gentrificazione, ma ha una sua spiccata autonomia, data dall’aspetto estetico, social e narrativo. Un concetto rilevante è quello del consumo posizionale. Farsi vedere, attraverso i social, in un locale alla moda in un quartiere riqualificato, a consumare salmone con l’avocado, è status symbol».

NIENTE SI INVENTA DA SOLO: «A LIVELLO GLOBALE il modello di riferimento è quello del turismo. Poco sostenibile per un territorio. Se ci aggiungi un menù con ingredienti che arrivano da 3 mila chilometri di distanza, c’è qualcosa che non torna rispetto alla retorica del chilometro zero». Aggiunge Perucca: «Il cibo è nutrimento, il food è consumo, un prodotto da vendere. Una differenza sottile ma sostanziale». Dal loro incontro artistico è nato, prima del libro (inserito nella collana «bookbloc, strumenti di autodifesa culturale»), uno spettacolo teatrale, portato in scena a Torino, Bologna e Genova. Un incrocio tra registri differenti. Marco Perucca è autore di racconti e cantastorie, Paolo Tessarin è blogger di Sistema Torino, collettivo cittadino di attualità politica, culturale e sociale.

«IL COVID HA INTERROTTO LE NOSTRE REPLICHE. Poi, è arrivata la proposta di Eris. Prima di accettare ci siamo chiesti se, in una fase in cui i media parlavano di crisi del mondo della ristorazione assai provato dalla pandemia, avesse ancora senso parlare di foodification. Se fosse un accanimento. In realtà, abbiamo visto che appena sono allentate le misure restrittive, la retorica pubblica e la macchina del food sono ripartiti più forti di prima. Ed è stato, allora, necessario mettere in luce le criticità di questo processo». Il riferimento per i due autori è principalmente Torino, città in cui vivono e lavorano, dove per un certo periodo (per qualcuno tuttora) si è pensato che turismo e food potessero sostituire la manifattura, quasi eclissatasi con il finire dello scorso secolo. «Basti pensare allo storytelling attorno alla prima sede di Eataly che andava a sostituirsi a una ex
fabbrica», dicono in coro.

«SONO IN TANTI – RACCONTA MARCO PERUCCA – quelli che hanno investito il tfr del papà o del nonno, ex operai Fiat, per aprire un locale, magari anche perché in mancanza di altre prospettive. E in questo c’è pure una responsabilità dei media, che fanno credere che gestire un ristorante sia facile e che l’importante sia l’inventiva. Così, invece, non è». L’esempio della città della Mole è speculare a molte altre realtà simili, in Italia e all’estero.

CHIUDONO LE VECCHIE BOTTEGHE, APRONO NUOVI locali con insegne pretenziose e menù su lavagnette che affermano presunte autenticità; i dehor (gazebi e tavolini) si ampliano «privatizzando uno spazio pubblico»; la vita notturna diventa predominante rispetto a quella diurna. E con questa riconversione (spacciata per «liberazione dal degrado») sale il valore degli immobili e degli affitti in un quartiere. Chi non può più viverci è obbligato ad andarsene. «Il cibo, anzi il food, con quella spocchia cosmopolita che finge di annullare differenze sociali, mentre queste corrono come non mai, è – scrive il sociologo dell’Università di Torino Giovanni Semi nella postfazione al libro – un tavolo straordinario per guardare alle disuguaglianze contemporanee».

BISOGNA COGLIERE L’OCCASIONE DI SPOLITICIZZARE il cibo. E non ci si può non chiedere come contrastare o ridurre gli effetti della foodification. «È una questione politica. È vero – conclude Paolo Tessarin – che nel settore c’è stata la liberalizzazione con la legge Bersani, ma è anche vero che ci sono comuni che nel tempo hanno limitato il proliferare di determinate attività commerciali. Riuscendo ad arginare per esempio i cosiddetti frigo, locali minuscoli destinati solo al consumo, in particolare bevande. Perché non limitare che ci siano cinque pizzerie in una via lunga 250 metri? Non sono necessarie. Ci vorrebbero veri e propri piani regolatori del commercio. Coinvolgere i cittadini residenti, farli partecipare alla progettazione. Non tagliare i servizi, anzi migliorarli. E proporre cultura che restituisca qualcosa al territorio».