Raccontano che una volta, nel culmine dell’amarezza, Antonio Fontanesi abbia mormorato: «Felice l’artista che nasce dopo morto». Alla concettosa fantasia di un seicentista sarebbe bastata la concisione epigrammatica di questa frase a dar conto della vita del pittore. Non ricordo qunado sia stata pronunciata, certo è che, incisa sulla sua lapide, all’ombra di una qualche dogliosa rappresentazione allegorica dell’Arte in gramaglie, avrebbe figurato come il più acconcio degli epitaffi.
Eppure Antonio Fontanesi (1818-1882) non fu un artista umbratile e appartato. Fin dal 1850 si era trasferito a Ginevra dove era entrato in confidenziale amicizia col mercante d’arte Victor Brachard e dove ebbe modo di conoscere François Diday e Alexandre Calame, entrambi pittori di paesaggio. A Parigi, dove giunse nel 1855, visitò l’Esposizione Universale, soffermandosi nel Palais des Beaux-Arts sulle tele di Corot, Daubigny, Rousseau e Troyon; al Louvre prese familiarità con i lavori di Leonardo, Lorrain e Poussin. Tre anni dopo cominciava a frequentare la cerchia di pittori che si riuniva intorno a François-Auguste Ravier nel Delfinato, antica provincia francese vicina a Ginevra. Dopo aver trascorso alcuni anni a Londra, tornò infine in Italia, prima a Firenze, poi a Lucca, poi ancora a Torino. Ma nessuno è profeta in patria: ricevuto l’incarico d’insegnante di paesaggio all’Accademia Albertina, Fontanesi rimase un pittore in ombra.
Da questi ultimi anni bui, durante i quali si vide escluso dall’Esposizione Nazionale di Belle Arti che nel 1880 si andava allestendo a Torino, prende l’abbrivio un’eccellente mostra al Palazzo dei Musei di Reggio Emilia: Antonio Fontanesi e la sua eredità Da Pellizza da Volpedo a Burri, che i curatori, V. Bertone, E. Farioli e C. Spadoni, hanno voluto dividere in quattro sezioni: «L’alba di Fontanesi 1901. Biennale di Venezia»; «La scienza del colore 1892-1915. La riscoperta dei divisionisti»; «Numero, ordine, misura 1922-1932. La riscoperta di Carrà»; «Un’eredità romantica, 1952-1954. Da Longhi ad Arcangeli». Ciascuna sezione ripercorre una tappa della riabilitazione postuma di Fontanesi. Vediamo così esposto, nella seconda delle sale, un florilegio di quelle opere che, nel 1901, nell’ambito della IV Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, avevano costituito il nucleo della prima grande mostra retrospettiva sul pittore, sollecitata dallo zelo di amici e discepoli. Dovessimo limitarci a giudicarne i soggetti, la pittura di Fontanesi potrebbe dar l’impressione di una certa qual monotonia. L’artista emiliano sembrò non amare che un tipo particolare di paesaggio: argilloso, smottato, delimitato in genere da alberi vasti e solinghi cresciuti stentatamente fra gore di acque morte e rafferme. L’aria che circola nelle sue tele è per lo più quella densa e grossa de Il mattino (1855) o del Crepuscolo sul Mugnone (1867), mentre la terra, per la prossimità di paludi o acquitrini, appare uliginosa e torbida, come in L’abbeveratoio (1867), in Fontana nei pressi di Signa (1867) o in Chiavica presso Optovez (1860).
Ma da questa uniformità Fontanesi seppe trarre i più sottili effetti di luce, sciogliendo di volta in volta l’anima musicale dei paesaggi come in un’assorta quietezza contemplativa. Per Fontanesi, come per Costable e Turner, la Natura consisteva effettivamente in quella unità spirituale di corrispondenze di cui parla Wordsworth nei versi: «Something far more deeply interfused,/ Whose dwelling is the light of setting suns,/ And the round ocean, and the living air,/ And the blue sky, and in the mind of man». In lavori come La quiete (1860) o L’abbeveratoio (1867), espresse questa idea panteistica legando in forti masse chiaroscurali tutti gli elementi del paesaggio, arbusti, uomini, rocce e armenti, in un’unità di masse chiaroscurali.
Ritroviamo un tale sentimento religioso della Natura, insieme alla tecnica della luce e al senso vasto e ordinato della composizione, nelle opere divisioniste esposte nella terza sala: «Qualcosa di sacro – scriveva Vittore Grubicy de Dragon –, di religioso emana da queste creazioni di un’arte elevatissima profondamente sentita: nel contemplarla (…) mi pare che i credenti di una volta abbiano dovuto provare una dolcezza analoga, un delizioso turbamento d’animo simile al mio, quando s’immergevano nella contemplazione dell’immagine venerate d’un santuario»; «delizioso turbamento d’animo» che Pellizza da Volpedo legava alla luce delle tele di Fontanesi: «vergine natura selvaggia – come scrisse – diffondentesi nella luce».
Osservando i quadri esposti, I due pastori nel prato di Mongini (1901) o Nubi di sera sul Curone (1906), ci accorgiamo di come sia proprio a partire da Fontanesi che Pellizza abbia creato quella sua luce diffusa, diafana e rarefatta, come di mussola, che intride ogni cosa; e lo stesso potrebbe dirsi di quell’altra luce, più sottile, che anima di un fremito panteistico il dittico Autunno e Inverno (1898), come a rivelare in tutto il visibile una comune filigranatura d’oro. Ma la pittura di Fontanesi, che per i Divisionisti fu ansia di luce, doveva invece sembrare a Carrà, non molti anni dopo, piuttosto un’espressione d’ordine e di raggiunto equilibrio compositivo; tanto che egli vide in un quadro come Bufera imminente, prima ancora che una espressione di romantica religiosità panica, un’«opera capitale, in cui risuona una eterna esultanza e regnano il numero l’ordine e la misura. Vi si ammira, espresso in modo semplice e severo, il ritmo che dà il carattere all’opera di Fontanesi e che noi ritroviamo variato e con un risultato quasi sempre felice nel Mattino e nel Ritorno dal pascolo». Così l’opera di Fontanesi, che accostata ai lavori di Pellizza e di Morbelli aveva manifestato quel che in essa c’è d’incantato poema naturalistico, rivela, in questa quarta sala, dov’è messa a fronte di quadri come Capanni sul mare (1927) di Carrà o come Ragazza in collina (1937) di Felice Casorati, la nobile e tranquilla grandezza delle sue forme.
Mentre ci si muove verso l’ultima sala, nella quale, sul solco del saggio di Arcangeli Gli ultimi naturalisti, viene proposta una possibile linea di continuità fra il romanticismo di Fontanesi e alcune espressioni artistiche degli anni cinquanta (Burri, Morlotti, Mandelli), affiora con sempre maggior chiarezza la suggestiva tesi di questa mostra: se è vero delle opere classiche quel che ne diceva Calvino, cioè che in esse tutte le epoche sanno trovarvi un po’ di loro stesse, allora Fontanesi è un Classico, non meno di un Costable o di un Corot, dei quali ingiustamente fu tacciato d’essere un semplice epigono.