Esistono ancora gli archeologi con taccuino e matita? Non a Vulci, dove nell’ambito delle ricerche dirette da Maurizio Forte dell’Università Duke (Durham, Stati Uniti) la carta è stata sostituita da tablet e penne digitali. Ogni unità stratigrafica è rilevata in 2D e in 3D: la tecnologia VR (realtà virtuale, ndr) consente ad archeologi e visitatori di esplorare lo scavo nelle sue varie fasi, attraverso l’utilizzo di appositi caschi. Non a caso, il progetto – sostenuto anche dalla Fondazione Luigi Rovati e con il coordinamento della Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria – s’intitola «Vulci 3000», con riferimento all’archeologia del futuro. Le tecnologie informatiche sono parte integrante dell’approccio seguito da Forte, il quale coordina un’équipe internazionale e multidisciplinare, formata da etruscologi e studiosi di archeologia classica ma anche da esperti del digitale.

L’ALTOPIANO VULCANICO di Vulci, oggi Parco naturalistico e archeologico, è stato occupato continuativamente per quasi 1500 anni. Le aree sepolcrali (celebre la scoperta della Tomba della Sfinge) risalgono all’Età del Ferro e si spingono oltre l’epoca ellenistica. Spesso danneggiate da tombaroli di ogni epoca, sono state al centro delle indagini archeologiche degli ultimi due secoli. Al contrario, gli scavi in area urbana si sono limitati a pochi e circoscritti interventi, soprattutto negli anni 50-60, mentre solo di recente le ricerche sono riprese con metodologie più aggiornate.
«Ci siamo concentrati nell’area del Foro, nel versante meridionale della città etrusca – dice al manifesto Maurizio Forte –. Vulci fu occupata dai Romani nel 282 a.C. e questo è l’unico evento della colonizzazione attestato dalle fonti. Il resto del racconto emerge dall’analisi del paesaggio e dallo scavo». Il progetto «Vulci 3000» ha preso avvio nel 2014 con prospezioni effettuate tramite droni, georadar e magnetometria: un’archeologia «multimodale», i cui vantaggi derivano dal mettere a confronto tutti i risultati senza che una metodologia prevalga sulle altre. Le esplorazioni geofisiche, che si sono svolte tra il 2016 e il 2018, in collaborazione con la società Geostudi Astier di Livorno e il Ludwig Boltzmann Institute for Archaeological Prospection di Vienna, hanno condotto all’identificazione di alcuni monumenti del Foro, tra cui la basilica. È stato anche riportato alla luce un complesso di strutture – nel quale si svolgono le indagini attuali –, che secondo Forte corrisponde a un’area santuariale di età imperiale. In epoca augustea, nel medesimo spazio, viene eretto un edificio di travertino, con nicchie per statue e marmi policromi provenienti dall’Asia Minore, presumibilmente dedicato al culto dell’imperatore.
Il grande tema affrontato a Vulci dall’Università Duke è tuttavia quello dell’archeologia dell’acqua: «C’è una città sotterranea che non conoscevamo, formata da una rete apparentemente infinita di cunicoli – dichiara Forte –. Già a qualche metro di profondità s’intravvedono cunicoli in serie costruiti e scavati nel tufo, provvisti di pozzetti di ispezione e monitoraggio. Altri ancora, che è possibile seguire tramite le prospezioni geo-elettriche per centinaia di metri, sono scavati nel banco di tufo e vanno in tutte le direzioni». Si tratta di un impressionante sistema di ingegneria idraulica per la captazione delle acque, concepito già in età etrusca, con una distribuzione su larga scala di enormi volumi di acqua.

[object Object]

LA SCOPERTA DI SCULTURE pertinenti a fontane, ripropone il tema dell’acqua con effetti scenici in alzato anche per l’epoca romana. Un confronto con le vecchie mappe di Vulci pubblicate dalla Fondazione Lerici fa ipotizzare che tutta la città fosse servita da un impianto idraulico controllato dalla città-stato etrusca. Al di sopra dei cunicoli ci sono infatti altre canalette, realizzate con una fila di coppi etruschi giustapposti, numerati e contrassegnati da lettere (forse marchi legati al montaggio delle strutture).
I nuovi scavi fanno chiarezza anche sulla transizione tra l’insediamento etrusco e quello romano, evidenziando come essa non avvenga in modo repentino né violento. Infatti anche dopo il 282 a.C. e in età repubblicana, Vulci continua ad avere un’identità in parte etrusca, con architetture ibride e conservative. Le prospezioni da drone, che hanno coperto circa 250 ettari di terreno, mostrano inoltre che la città etrusca era più estesa di quella romana.

TRA I REPERTI spicca un frammento di anfora attribuibile al Pittore di Micali, per la prima volta documentato in area urbana, uno dei primi artisti etruschi riconoscibili nel VI secolo a.C. e la cui produzione – caratterizzata da figure animali quali sfingi, grifoni, cavalli alati e centauri – è disseminata nei musei del mondo. Sul versante delle tecnologie, è da menzionare un esperimento innovativo che mette in rapporto archeologia e neuro-scienze con sistemi di tracciamento dello sguardo per osservare come un archeologo e un utente generico interpretino lo scavo. Degli occhiali connessi all’eye-tracking calcolano dove si focalizza la pupilla durante la visita statica o dinamica di un cantiere archeologico e il dato viene associato a un elettroencefalogramma realizzato durante lo stesso tipo di esperienza.
«L’utilizzo della Neuroarchaeology ci ha permesso di identificare modi differenti di leggere la stratigrafia – afferma entusiasticamente Forte –. La categoria degli archeologi lavora per cluster mentre i non addetti ai lavori approcciano lo scavo in modo olistico. Sappiamo talmente poco del processo cognitivo che porta all’interpretazione di un contesto antico che questi dati, non controllabili psicologicamente, sono davvero affascinanti». L’archeologia del III millennio è già qui.