La mostra che il Museo d’Arte Moderna di Parigi consacra a Lucio Fontana (visibile fino al 24 agosto) può considerarsi una delle più belle retrospettive dedicate al maestro italo-argentino degli ultimi trent’anni. Lo è per la qualità delle opere che i due curatori – Choghakate Kazarian e Sébastien Gokalp – hanno riunito con squisita sensibilità medio-orientale: ne esce fuori un percorso in grado di rileggere e ricontestualizzare materiali e creazioni. All’interno dell’itinerario proposto, compare tutto ciò che è stato cruciale per la ricerca dell’artista e per la nascita del mito fontaniano, con deliziosi scarti dal vangelo anedottico ricorrente. La ceramica esposta è, per esempio, quasi inedita e, una volta spogliata dai caratteri decorativi, diventa la motrice del processo creativo: è materia in grado di registrare il gesto eccessivo e barocco ed è anche parte integrante di quel salto che ridefinisce l’intera produzione di un artista che ha segnato l’entrata in scena di materiali eterogenei nella dimensione del contemporaneo.
La mostra testimonia il dandismo minimale di Fontana, nutrito di collaborazioni, laceranti soluzioni e idee folgoranti. Siamo in presenza di una sorta di romanzo della riconquista del mezzo artistico in una versione luminosa. È un racconto che va dalla pienezza della sua stagione primitiva fino all’Informale, in relazione ai suoi inizi accademici: dall’algida redazione del Manifesto Blanco, agli esiti mondani delle Pillole o dei Teatrini. Il Fontana parigino si rivela per le sue qualità pittoriche ed è quasi disgiunto dal trionfo internazionale del «poverismo» e dell’arte di ricerca, cui spesso si fa riferimento. È un artista che, finalmente, si smarca dall’iconicità dei suoi tagli e buchi. In rassegna, sono esposti solo i migliori: lo rappresentano come un elegante scienziato in cerca di una nuova dimensione.
In questa retrospettiva risulta evidente l’assunzione di un atteggiamento progettuale di Fontana e l’abbandono del ciarpame avanguardistico, che fanno emergere piuttosto l’idea di un classicismo di inossidabile qualità. Per la pittura, semplicemente oltre la dimensione della tela, con la soluzione dello squarcio; per la scultura nella luce e dunque più Brancusi che Boccioni; per la materia, direttamente nello spazio, fuori dal volume. Non a caso, in una memorabile intervista con Tommaso Trini, Lucio Fontana descrisse il suo antagonista americano Jackson Pollock come un artista imprigionato nello spazio della tela, nella trance della sua danza apollinea con il colore. Per questo cavaliere della Pampa argentina, il neon e la ricerca sulla luce (fino al negativo di quella di Wood) sono e saranno la folgorante novità degli ambienti spazialisti. Esiti che lo librano nella dimesione post- modern dell’installazione e del puro concetto.