Più che un dibattito parlamentare somiglia a un incontro sul ring. Il nuovo round della ormai eterna sfida tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte, i due veri rivali che se le danno di santa ragione da mesi, è fissato per lunedì prossimo, ore 13, aula di Montecitorio. Dopo la rissa in aula di mercoledì, il premier ha deciso di informare la Camera sui percorsi del Mes e sui suoi esiti già il 2 dicembre. «Spazzerò via mezze ricostruzioni, menzogne, mistificazioni», promette battagliero. «Chi è seduto a questo tavolo – afferma in conferenza stampa il leghista riferendosi a se stesso – ha ampia documentazione messaggistica con il premier e con il ministro del Tesoro. In sintesi dicevamo: Non firmiamo un cazzo».

IL MATCH POTREBBE non restare confinato nelle aule parlamentari. «Conte ha commesso un atto gravissimo, un attentato al popolo italiano e alla sovranità nazionale. Chiediamo un incontro al presidente Mattarella. Chiediamo al garante della Costituzione di farla rispettare», incalza Salvini e non si ferma qui: «I nostri avvocati stanno studiando un esposto ai danni del governo e di Conte». Il premier accetta la sfida e rilancia: «Vada a presentare l’esposto e io lo querelerò. Ma io non ho l’immunità e lui sì. Ne ha approfittato con il caso Diciotti: veda questa volta». Un invito a rinunciare alla copertura per combattere ad armi pari. Salvini non perde la battuta: «Mi ricorda il marchese del Grillo: ‘Io so’ io e voi non siete un cazzo. Ma l’arroganza porta male».

CAMPEGGIANO I DUE interpreti principali. Ma a Giorgia Meloni il ruolo della comprimaria va stretto e si ritaglia una parte in commedia: «Aspettiamo il premier in aula a braccia aperte. Speriamo che smentisca il ministro dell’Economia». Perché le parole che hanno dato fuoco alla prateria, in realtà, le ha pronunciate Gualtieri, affermando che, a suo parere, il Trattato non è più modificabile. L’accusa delle opposizioni a Conte è quella di aver dato il via libera alla riforma del Mes, sia pur solo verbalmente e senza ancora firme (anche perché il momento delle firme non è ancora arrivato) nonostante una mozione del Parlamento lo impegnasse in senso opposto. «Non c’è nessun problema», assicura Giorgetti illustrando la trappola: «Se la nuova maggioranza ha cambiato idea basta che voti un’altra mozione».

CAPITA CHE LA CROCE di Conte e del governo sia però proprio quella: il voto. Perché al momento del voto nessuno può giurare sul comportamento dei 5S in generale e dei singoli parlamentari pentastellati nel particolare. Dopo la posizione blindata del ministro Gualtieri, quel voto, se bocciasse il Trattato, suonerebbe come sfiducia in Gualtieri e in Conte. Porterebbe dritti alla crisi di governo. Non è un imprevisto. La strategia del governo e di Conte in particolare è stata proprio quella di portare le cose al punto estremo, al «prendere o lasciare». Nella convinzione, o nella speranza, che di fronte allo spauracchio della crisi i 5S finiranno per prendere, per ingoiare la pillola al cianuro con la quale smentirebbero dieci anni tondi di posizioni politiche contrarissime al Fondo salvastati.

L’ASPETTO ALLUCINATO del duello in questione è proprio questo: che la sorte del Mes e del governo non dipendono dai due pugili che si battono sul ring ma dai 5S che, invece, in tutta evidenza, non sanno cosa fare. Ieri pomeriggio i gruppi congiunti hanno fatto il punto nell’assemblea convocata per la notte precedente e poi rinviata. Al termine Di Maio è elusivo: «Massima fiducia in Conte e Gualtieri ma è evidente che occorre migliorare il negoziato difendendo gli interessi dell’Italia. Appartenenza a euro e Ue è solida ma se qualcosa non è accettabile va migliorata».

UN SIMILE ESERCIZIO di impossibile equilibrio sembra dire che Di Maio, e per una volta con lui tutti o quasi i 5S, stanno cercando un appiglio per votare la riforma senza perdere del tutto la faccia. Non è impresa semplice. Il tempo stringe. Le parole di Gualtieri sull’inemendabilità del Trattato non erano dal sen fuggite e anche l’unica via d’uscita possibile, quella del rinvio, non è facilmente praticabile. Almeno per ora, i 18 partner dell’Eurogruppo non hanno dato alcun segnale in questo senso e non è neppure detto che Conte, nel vertice del 4 dicembre, lo chieda senza sicurezza di risposta positiva. Mattarella, tirato per la giacca da Salvini, non ha alcuna intenzione di entrare in campo apertamente. Ma sul Colle tutti sono convinti che il voto del Parlamento nei prossimi giorni Conte dovrà decidersi ad affrontarlo.