Giorni agitati per il premier ceco Andrej Babiš contestato dalle piazze e inseguito dal suo principale tallone d’Achille: il conflitto d’interesse sui fondi europei pagati da Bruxelles.

Venerdì scorso sono usciti su alcuni media cechi degli stralci del recente audit effettuato dalla Commissione Europea sulla situazione di Babiš e il suo gruppo Agrofert. Il premier ha soddisfatto la normativa ceca sul conflitto d’interessi conferendo il gruppo, secondo aggregato industriale del Paese, in un fondo fiduciario, ma la normativa europea è molto più stringente. I controllori europei hanno scoperto quello che più o meno tutti sapevano: che l’unico beneficiario dei fondi è il premier stesso e che gli amministratori sono persone a lui vicine, se non direttamente suoi familiari. Secondo le conclusioni preliminari della Commissione Babiš è nel duplice ruolo di gestore dei fondi europei a livello nazionale (essendo ora premier e prima ministro delle finanze) e allo stesso tempo uno dei beneficiari di queste risorse.

Se le conclusioni del rapporto dovessero essere confermate, la Repubblica Ceca rischia di non vedersi rimborsate le sovvenzioni europee già versate al gruppo Agrofert.

Complessivamente si tratta di circa mezzo miliardo di corone, 20 milioni di euro. «La Repubblica Ceca non perderà alcuno soldo» ha ripetuto Babiš in un intervento emotivo alla Camera dei Deputati. Il rapporto europeo ha invece ringalluzzito l’opposizione, che sottolinea il buco di bilancio che si verrebbe a creare se la Repubblica Ceca non ottenesse i rimborsi. Tuttavia, alcune critiche a Bruxelles sono arrivate anche dall’opposizione. «All’inizio il rapporto doveva arrivare a gennaio, poi a marzo e alla fine è arrivato dopo le elezioni» ha sottolineato il segretario generale del Partito Pirata Ivan Bartoš.

Il premier ceco si trova da qualche settimana anche sotto la pressione delle piazze. A convocarle è il movimento studentesco dal nome fantasioso «Un milione di attimi per la democrazia». Motivo della protesta è il sospetto che il premier voglia manipolare tramite la nuova guardasigilli Marie Benešová l’operato dei pubblici ministeri nell’affaire «Nido della Cicogna». Questa volta Babiš è indagato per una malversazione di due milioni di euro dai fondi europei utilizzati per costruire un resort di lusso. L’ultima volta a chiedere le dimissioni del premier erano in cinquanta mila, lunedì sera erano attese in piazza Venceslao cento mila persone. Numeri ragguardevoli ma non pericolosi dato che non riescono a scalfire quel blocco maggioritario su cui si reggono Babiš e il presidente della repubblica Zeman. A mancare per ora è quel effetto shock, che si verificò in Slovacchia in seguito all’omicidio del giornalista Kuciak e che fu decisivo nell’incrinare il blocco elettorale dell’allora governo.

Gli unici a soffrire realmente della situazione sono per ora i socialdemocratici. Entrati un anno fa nel governo per garantire un volto sociale dell’esecutivo e per sorvegliare e correggere l’operato di Babiš, il partito è sceso alle europee sotto la soglia del 5 percento. È riuscito a introdurre nuove misure sociali ma ha ceduto completamente rispetto alla questione Babiš perdendo una fetta dell’elettorato. Ma uscire dal governo è difficile con il rischio di rimanere fuori dalla Camera dei Deputati, dopo essere rimasto fuori dal parlamento europeo. Per il premier la perdita degli alleati invece non sarebbe il capolinea. In fondo si potrebbe rivolgere ai partiti espressamente xenofobi e sovranisti dismettendo la sua maschera costruttiva e pro Europa. Sarebbe solo una delle sue molteplici mutazioni.