L’acuta crisi che investe l’Opera di Roma è una tessera del triste mosaico delle Fondazioni lirico-sinfoniche italiane, i nostri teatri lirici da anni definanziati dai contributi pubblici e dunque in maggioranza affogati in pesanti deficit di bilancio, in parte ascrivibili anche a una mala gestione di una generazione di manager che troppo spesso presentano al pubblico bilanci preventivi in pareggio e nascondono le perdite tra le pieghe dei consuntivi.

Il deficit globale delle Fondazioni lirico-sinfoniche si aggira attualmente intorno ai 400 mln di euro, anche se ci sono isole felici: merita citare il Regio di Torino che grazie a una oculata gestione di Walter Vergnano e agli sforzi di Comune e Regione, sta attraversando la crisi a testa alta. Tuttavia i recenti fatti capitolini riportano tristemente in auge un vezzo tutto italiano, vale a dire scaricare la colpa sui lavoratori di questi teatri e in particolare sui musicisti. L’orchestra e il coro dell’Opera di Roma nei mesi scorsi sono stati oggetto di una campagna denigratoria senza precedenti,senza che sovrintendente, sindaco, giunta, assessore o commissione cultura battessero ciglio. Tra le falsità più evidenti c’è la cosiddetta «indennità Caracalla», un privilegio che i musicisti del teatro romano percepirebbero durante la stagione estiva. In realtà come tutti i musicisti di tutte le Fondazioni Lirico sinfoniche quelli di Roma quando suonano all’aperto prendono un cachet leggermente maggiorato anche per l’usura dello strumento.

A prendere l’indennità Caracalla sono invece anche amministrativi e tecnici, un vero privilegio cui non avrebbero diritto e che percepiscono perfino quando restano in sede. Dell’indennità Caracalla si parla da anni, ma né le passate direzioni dell’Opera né la presente hanno fatto alcun tentativo per abolirla. C’è poi la fandonia della indennità per trasferta all’estero, abolita nel 2010 quando l’allora ministro Sandro Bondi con la legge 100 art. 3 la trasformava in una diaria eguale per tutte le Fondazioni lirico-sinfoniche, e corrispondente alle tabelle dei lavoratori del settore pubblico comandati all’estero. Lascia perplessi che gli amministratori dell’Opera non risultino a conoscenza di queste leggi.

Una campagna denigratoria di fronte alla quale il «metodo Boffo» impallidisce, senza contare che colpisce tutte le orchestre. A leggere i giornali i musicisti italiani sarebbero strapagati, anzi i più pagati del mondo. In generale i loro emolumenti sono circa la metà di quelli dei loro omologhi in Francia, Spagna, Gran Bretagna, Germania o Austria, e se paragonati alle grandi orchestre si attestano intorno a un quarto: una prima parte che sostiene anche ruoli solistici all’Opera di Roma guadagna in media 40 mila euro l’anno, al Metropolitan 190 mila, alla Chicago Symphony 180 mila.

La campagna «dagli al musicista!» non è nuova nel nostro paese, ma per fortuna negli ultimi due o tre anni si era calmata. Il suo ritorno rammenta anche un risvolto di bassa politica: i musicisti, che studiano molti anni in conservatorio, in seguito si specializzano e poi devono continuare comunque a esercitarsi tutta la vita, sono gli unici a entrare nelle Fondazioni lirico-sinfoniche e nelle Orchestre regionali per concorso, dunque la loro assunzione è scarsamente oggetto di clientele, che invece imperano negli altri settori dei nostri teatri, e non solo.Ma soprattutto la dice lunga su un’Italia dove l’artista è adulato quando è un divo di carta, ma sprezzato come lavoratore.

Le invettive che investono la buca di orchestra esondano anche sul podio: se molto scalpore ha causato l’abbandono di Roma da parte di Riccardo Muti, in queste ultime settimane sono andati via dai rispettivi teatri anche Gianandrea Noseda (Torino), Daniele Rustioni (Bari), Nicola Luisotti (Napoli). Alcuni approderanno all’estero, dove molto apprezzano i compositori, musicisti, cantanti e direttori d’orchestra italiani, e meno i nostri manager. Ennesimo sintomo di un malessere generale causato dall’assenza di politiche nella cultura e che dovrebbe far riflettere su come questi anni oltre a un deficit economico stiano causando un disastro culturale.