I Talebani preparano la grande cerimonia di insediamento del nuovo governo, «inizio di una nuova era di libertà e sovranità», assicurano. In uno Stato che è però tutt’altro che sovrano, economicamente. Così, mentre vengono stampate migliaia di bandiere bianche e nere, pronte per essere sventolate nel corso dell’inaugurazione del governo retto dal «comandante dei fedeli» Haibatullah Akhundzada, a Kabul si fanno sempre più lunghe le code agli sportelli bancomat e a Herat dozzine di donne protestano.

CARTELLI IN MANO e slogan scanditi, chiedono che le donne siano incluse nel governo. Ma chiedono anche di tornare al lavoro. A una parte di loro non è stato permesso di entrare nella zona industriale di Herat, dove gestivano attività commerciali. Segnali preoccupanti per i Talebani, perché riguardano il settore in cui affronteranno i maggiori problemi e che più platealmente smentisce il «rinascimento sovrano»: l’economia.

Dopo la conquista militare del potere da parte dei Talebani, Washington ha deciso di bloccare le riserve della Banca centrale afghana custodite negli Stati Uniti, circa 7 miliardi di dollari dei 9,5 complessivi. A seguire, Fondo monetario internazionale e Banca mondiale hanno congelato i prestiti.

I TALEBANI HANNO NOMINATO in fretta un nuovo governatore della Banca centrale, Haji Mohammad Idris. Nessuna esperienza nel settore, nei giorni scorsi – riporta la Reuters – si è speso per rassicurare i membri dell’Associazione delle banche afghane: vogliamo un sistema finanziario solido e funzionante. Ma mancano competenze e capitali. E manca la fiducia della comunità internazionale, fondamentale per sostenere un’economia fondata per l’80 per cento sugli aiuti stranieri. Manca inoltre il via libera di Washington. E senza Washington, niente dollari, cruciali: finora l’80 per cento delle transazioni bancarie è avvenuto con questa valuta.

A CHIEDERE UN’APERTURA di credito è Shah Mehrabi, docente di Economia nel Maryland e dal 2002 nel board della banca centrale. Paventa un imminente collasso economico e umanitario. Per evitarlo propone «accesso limitato e monitorato» alle riserve afghane. Ogni mese una piccola somma, monitorata da un auditor esterno. Se gli asset rimanessero congelati, spiega Mehrabi, l’inflazione crescerebbe ancora, i beni primari diverrebbero inaccessibili e il governo perderebbe gli strumenti per la politica monetaria. A pagarne le conseguenze, la popolazione.

CHE GIÀ ORA è per buona parte sotto la soglia di povertà. In un Paese che esce da decenni di economia di guerra: un’economia artificiale, gonfiata e poi scoppiata, come una bolla. Dal 2002 al 2020, la crescita media del Prodotto interno lordo è stata del 6 per cento. Ora, con gli eserciti tornati a casa e i Talebani al potere, le cose cambiano. Fitch Solutions, branca della compagnia internazionale di valutazione del credito, prevede che il Pil si ridurrà del 9,7 per cento nel corso dell’anno finanziario in corso, con un’ulteriore riduzione del 5,2 il prossimo anno. Secondo gli analisti di Fitch, lo scenario più ottimistico – una crescita del 2,2 per cento dal 2023 al 2030 – è appeso al riconoscimento del governo talebano da parte di Mosca e Pechino.

CHE DOVREBBERO PERÒ anche decidere di investire pesantemente nel Paese, cosa tutt’altro che scontata. Sempre che prima di allora non si sollevino pezzi di Paese, a causa della crisi economica e della difficoltà, tra le altre cose, di dare lavoro alle centinaia di migliaia di soldati dell’esercito ora vaporizzato. E di far fronte a una profonda crisi umanitaria che precede l’arrivo dei turbanti neri al potere: 18,5 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria, 1 persona su 3 – ha ricordato due giorni fa Guterres, Segretario generale dell’Onu – non sa come e se mangerà domani. E la spinta migratoria, interna ed esterna, non si arresta.

WASHINGTON, così come altre capitali, deve decidere in fretta se sostenere l’Afghanistan. Come farlo senza che se ne avvantaggi un governo arrivato al potere con la forza. I Talebani invece hanno di fronte una parabola complicata: trasformarsi da gruppo armato in forza di governo. Qualcuno ritiene che non ne siano capaci.

O che nel farlo emergeranno, fino alla rottura, le spinte centrifughe fin qui trattenute dall’obiettivo comune: cacciare le potenze occupanti. Qualcun altro, come Dominic Raab, segretario alla Difesa britannico, sostiene che avere a che fare con i Talebani sia necessario, ma che questo non debba portare al riconoscimento del governo. La posizione inglese viene da Doha, dove Raab ha incontrato il ministro degli Esteri del Qatar Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani. Che ha annunciato potenziali «buone notizie» sulla gestione dell’aeroporto, da condividere con la Turchia. Ankara ha infatti provato a fare del dossier-afghano uno strumento di affermazione geopolitica.

Proprio in Turchia si sarebbe dovuta tenere la conferenza intra-afghana, sotto l’egida delle Nazioni Unite, saltata lo scorso aprile perché i Talebani erano ormai pronti alla spallata militare. Ora i Talebani hanno interessi comuni con il presidente Recey Tayyip Erdogan, che si dice cautamente ottimista nel parlare con loro: ostacolare l’esodo degli afghani. Anche ottenendo il sostegno di Turchia, Qatar, Cina e Russia, il nuovo governo dei Talebani rischia di scontare lo stesso difetto del precedente: dirsi sovrano, ma con i soldi altrui.