Presentata in prima mondiale nel piccolo Théâtre du Jeu de Paume, l’opera Seven Stones è una delle più felici sorprese del festival di Aix en Provence 2018. Basata su un libretto del poeta e scrittore islandese Sjón (anche autore della canzone di Björk in Dancer in the dark), il lavoro del praghese Ondoej Adámek è strutturato in sette brevi episodi più prologo, intermezzo e finale. Il libretto, la cui peculiare linea narrativa è frastagliata da sogni, slittamenti di piani geografici e storici, flashback e metamorfosi di luoghi e personaggi, nara del viaggio nel tempo e nello spazio di un collezionista di pietre. L’uomo si imbatte nella pietra offerta da Gesù ai farisei, esortati a lapidare l’adultera solo se a loro volta mondi da peccato.

In un caleidoscopio di ricordi e assolvenze appaiono un caffè mitteleuropeo, una scena di teatro giapponese, un bar di Buenos aires, il laboratorio di Marie Curie all’epoca del suo incontro con Edvard Munch a Parigi. Si svela infine il dramma sotteso all’intera vicenda: il collezionista ha ucciso la moglie, sorpresa nelle braccia di un altro uomo. L’opera si muta dunque in un percorso interiore nella follia carica di simboli e rimorsi del collezionista, che troppo tardi ha scoperto l’identità del suo preteso rivale, un figlio non visto da molti anni. Composta per un coro a cappella di dodici cantanti, il coro Accentus /Axe 21 e quattro voci soliste (Anne Emmanuelle Davy, Shigeko Hata, Nicolas Simeha e Landy Andriamboavonjy ), Seven Stones si sviluppa su un’ora e venti di durata con una scrittura polimorfa, vicina alle esperienze di Kagel, in cui coro e solisti imbracciano i più disparati strumenti musicali, che sono anche parte della scena, carrelli e elementi mobili: dalle percussioni giapponesi alle campane tubolari, dai bicchieri alla sega metallica suonata con l’archetto fino al blocco di cemento percosso con un martello o spezzato a terra. Parimenti polistilistica la scrittura vocale, che spazia dal canto monodico alla vocalità blues, dalla declamazione del teatro No alla vocalità barocca della cantata bachiana, dallo scatto espressionista al parlato alla scrittura polifonica contemporanea di Ligeti.

Tutto senza mai far calare la tensione: particolarmente riusciti l’inizio corale, memore delle esperienze di Cage e Glass, il racconto « giapponese » ritmato ai colpi di ventaglio della storia del venditore americano e la scena di Cristo e l’adultera affidata alla voce femminile. Il pubblico entusiasta ha festeggiato a lungo il regista Éric Oberdorff, i due direttori, Lèo Warynski e lo stesso Adámek, nonché il superlativo gruppo di interpreti.

Delude invece Dido and Aeneas di Purcell, presentato in un asciutto spettacolo di Vincent Huguet, ispirato al rapporto dell’orizzonte marino con un antico porto, secolare approdo di viaggiatori e migranti in fuga. Didone è una figura ambigua, donna ferita a morte dal tradimento di Enea e al tempo stesso spietata fondatrice di un nuovo impero, sulla pelle di schiave oppresse e rapite. L’opera era preceduta da un lungo prologo, scritto per l’occasione da Maylis de Kerangal, e interpretato da Rokia Traoré, toccante e fascinosa nel canto ma monocorde come attrice. Esecuzione vocale lievemente opaca, con solisti di voce e personalità limitati, sostenuti sempre con correttezza ma con poco slancio dall’Ensemble Pygmalion diretto da Vaclav Luks. Successo per tutti ma senza vera convinzione.