Nel 1919, rielaborando i suoi taccuini di viaggio, Andrej Belyj tracciava una linea netta fra i suoi primi trent’anni di vita, invariabilmente passati «nel quadrato polveroso dell’Arbat», cuore dell’antica capitale russa, e le inesauste peregrinazioni che, a partire dal 1910, lo avrebbero portato insieme alla pittrice Asja Turgeneva fin nella lontana Tunisi. Ed è proprio al loro soggiorno in Sicilia che il poeta simbolista fece risalire le prime avvisaglie di una inquietudine spirituale in grado di strapparlo all’atmosfera «mortifera» della città natale: «Asja è discesa dal remoto Occidente, mi ha teso la mano e mi ha tratto qui. Non sono più tornato a Mosca; se vi fossi rimasto, sarei morto e putrefatto da un pezzo; può diventare una tomba, Mosca».

Eppure, poco prima degli sfarzi palermitani all’Hotel des Palmes o del prolungato ritiro a Monreale, l’immaginazione di Belyj aveva sperimentato una deriva irresistibile nella direzione diametralmente opposta: non l’Occidente declinato in senso meridionale che sarà al centro delle Note di viaggio, pubblicate a Berlino nel 1922, bensì l’Oriente a lui più vicino, quello della campagna russa. Uno spazio a un tempo familiare ed esotico che, all’indomani dell’«andata al popolo», si era trasformato in laboratorio politico, meta bramata da giovani irrequieti, terra promessa per chiunque credesse nel ruolo messianico della Russia. Anche Belyj vi si era rifugiato nel gennaio 1909 per dar forma a quel progetto che si stava profilando nella sua mente, e cioè il primo tassello di una grandiosa trilogia narrativa titolata non a caso Oriente o Occidente, dove la riflessione storiosofica sulla posizione incerta della Russia – né Europa, né Asia – si sarebbe indissolubilmente fusa alle vicissitudini di personaggi in carne e ossa in una stralunata, spettrale feerie.

Composto nella tenuta nobiliare sperduta di Bobrovka e pubblicato a puntate sulla rivista simbolista «Vesy», Il colombo d’argento (ora ritradotto da Carmelo Cascone per Fazi, pp. 380, euro 18,00) può essere letto (e infatti lo fu) come compendio degli umori di un’epoca sospesa tra la delusione per la rivoluzione fallita del 1905 e l’attesa di una palingenesi imminente, vagheggiata dalle innumerevoli sette religiose che si erano staccate dall’ortodossia.

Storia di una vertigine
Ma è anche e soprattutto un romanzo magnifico, dove il tema della fascinazione tanto irrazionale quanto irrefrenabile sperimentata dall’intelligencija nei confronti del popolo assume una tonalità onirica, pressoché febbrile, che anticipa già quel mondo d’ombre che sarà al centro del secondo frammento della trilogia, Pietroburgo. E, forse, è proprio la natura fantasmatica dei suoi personaggi a far sì che Il colombo d’argento sparisca e ricompaia ciclicamente dagli scaffali. Introvabile per tutta l’epoca sovietica (non a caso, l’editore Chudožestvennaja literatura lo scelse per inaugurare nel 1989 la sua collana Libri dimenticati), il libro di Belyj (tradotto in italiano per la prima volta da Maria Olsoufieva nel 1964) torna ora dopo un’eclissi durata oltre vent’anni. Tanto più significativa è questa riapparizione, in quanto ci consente di apprezzare, tra l’altro, quale traccia incancellabile abbia lasciato l’immaginario di Belyj sugli autori che, in tempi recenti, hanno rielaborato nei loro testi, in chiave ironica o psichedelica, il mondo oscuro dei settari russi – su tutti Vladimir Sorokin e Viktor Pelevin.

Strumentalmente interpretato dai corifei del neo-slavofilismo (in primis il filosofo Nikolaj Berdjaev) come un inno alle magnifiche sorti e progressive della Russia, Il colombo d’argento è innanzitutto storia di una vertigine: quella sperimentata da Pëtr Dar’jal’skij studente di lettere classiche che, irretito dallo sguardo sconvolgente di una contadina sfigurata dal vaiolo, lascia tutto – a partire dall’angelica fidanzata Katja – per gettarsi a capofitto nell’universo parallelo creato degli adoratori del Colombo, una enigmatica setta di «mistici sensuali» che, con i loro riti dionisiaci, cerca di approssimare la seconda venuta di Cristo sulla Terra. Anzi, è proprio lui il prescelto che dovrà concepire il nuovo Messia insieme a Matrëna, la donna del popolo che, con la sua subitanea apparizione, l’ha così potentemente attratto.

Evidente l’ironia dell’autore
Tuttavia la loro unione, consumata nel tronco cavo di una quercia, è destinata a rimanere sterile e i confratelli «colombi» decidono di disfarsi di Dar’jal’skij, che non si è rivelato all’altezza del compito. La fusione panica col popolo – ricettacolo, almeno all’apparenza, di un principio spirituale superiore – si rivela fatale per l’intellettuale «contaminato» dagli influssi europei, ed è evidente l’ironia dell’autore nei confronti di quegli amici che, come il poeta Sergej Solov’ëv, rinnegavano di punto in bianco la propria identità «cittadina» per fuggire in campagna travestiti da contadini.

A differenza del povero Dar’jal’skij, Belyj tornerà a Mosca, non prima però di aver trasposto e trasfigurato nel Colombo gli spettri che lo ossessionavano: dalla rovinosa passione per Ljubov’ Mendeleeva, moglie di Aleksandr Blok (adombrata nell’inspiegabile attrazione che Pëtr prova per Matrëna), al rapporto non meno conflittuale con il padre matematico, che gli aveva proibito di pubblicare con il suo vero nome (Boris Bugaev) quelle che lui riteneva soltanto «poesiole disdicevoli». E, ancora, la sensazione opprimente che la Russia – già paragonata da Gogol’ a una trojka lanciata al galoppo – nella sua folle corsa fosse sempre più vicina al baratro.

Romanzo visionario e decisamente in anticipo sui tempi, Il colombo d’argento riflette la maestria di Belyj nel far trasmigrare alla prosa i procedimenti della poesia, creando una trama verbale di squisita musicalità. Se talvolta le parole sembrano accostate tra loro esclusivamente in vista di un determinato effetto sonoro, i «quadri» corrispondenti alle singole scene si succedono invece incalzanti, come nella sequenza di una lanterna magica; minime variazioni di luce o l’improvviso balenare di un dettaglio incongruo spezzano l’illusione da idillio bucolico, rivelando la natura ingannevole delle cose. Nell’irresistibile caduta di Dar’jal’skij tutto è vertigine, nulla è reale – a parte, forse, lo sguardo di Matrëna, «strega per antonomasia». Al turchino dei suoi occhi penetranti il protagonista non può fare a meno di affidarsi, pur ignorando se quell’abisso sia fatto di acqua o di cielo.