In quarto ginnasio la professoressa di latino e greco (una completa incompetente) mi metteva al banco da sola dicendo che corrompevo i compagni e che aspettavo il Principe Azzurro: falso come i soldi del Monopoli. Non aspettavo altro che il momento in cui indossare divini abiti sgargianti, diamanti al collo e alle orecchie (come cantava l’amatissima Marilyn), volteggiare tra le braccia di un qualsiasi accompagnatore di passaggio. Per anni ho sofferto quell’isolamento forzato, al quale riuscivo a opporre solo silenzio turbato e infuocate pagine di diario.
Molti anni prima, tra gli ultimi delle elementari e le medie, in quel tempo ambiguo popolato da pensieri arditi e subitanee frustrazioni adolescenziali, la mia attività ludica prediletta era giocare con le Barbie, come tante mie coetanee, simulando la vita dei «grandi». Le spogliavo, esploravo la protuberanza del seno (una terza abbondante), notavo una zona erogena sessuale neutralizzata di pelo, fessura, cavità. Con l’unico esemplare maschile fattomi regalare, un assai abbronzato Ken dalla capigliatura disegnata sul cranio come un casco da astronauta biondo, iniziavo entrambi a riti di accoppiamento senza profitto, uno sdraiato sull’altra, inondati di luce.

 

 

 

Post coito, mi fumavo in loro vece una esotica sigaretta svuotata di tabacco e riempita di camomilla. A volte mia madre passava da quelle parti e mi vedeva piangere. Fabiana, ma che succede, stai bene? Si, si, mamma, non ti preoccupare, faccio le voci. Regalando il dono della parola alle bambole i miei occhi, al di là della mia volontà, lacrimavano.

 

 

Tra le mani me ne son passate tante: una Barbie nera, un paio di Skipper – sorella o cugina più giovane – quella a cui si piegavano gomiti e ginocchia, la ballerina, l’infermiera: tutte coi capelli lunghi biondi e gli occhi azzurri eyelinerizzati di celeste. Le ho pettinate, vestite, tatuate, camuffate, martoriate, tagliuzzate, parrucchierate fino al disgusto, quando ne chiedevo disperatamente una nuova. Tipici alti e bassi delle amicizie che lasciano un segno.

 

 

Prendo coscienza, solo dopo aver visitato la mostra sull’icona Barbie al Mudec di Milano (come esimermi), che il vestito che mi sono fatta fare su misura da una costumista cinematografica per il mio matrimonio è tale e quale a quello che indossa Barbie Superstar. Fucsia da capo a piedi, scollato, luccicante, da diva. Non a caso stata lei la mia Barbie preferita. Colei che ha perso la verginità con Ken su un cuscino indiano del salone, colei che ha pianto di gioia alla scoperta della sua prima gravidanza, colei che ha goduto, sofferto, tradito, amato, bluffato accanto e insieme a me nei migliori (beh, tra i migliori) anni della mia, della nostra vita. Qualcosa da aggiungere? Se volete chiamatemi pure Fabiana Superstar. Modestia a parte.

 

 

(Simulazione del gestaccio dell’ombrello alla, ormai probabilmente defunta, professoressa incompetente del ginnasio: il Principe Azzurro è arrivato).

 

fabianasargentini@alice.it