Pensavo di dedicare questa rubrica alle recenti valutazioni del Censis, e ancor più al grosso volume firmato da Giuseppe De Rita, appena uscito da Laterza, che raccoglie mezzo secolo di «considerazioni generali» stese dal sociologo cattolico all’inizio di ogni «Rapporto sulla situazione sociale del paese» pubblicato di anno in anno.

Poi su facebook mi sono imbattuto nelle polemiche di molte femministe sulle foglioline comparse nel simbolo di Liberi e uguali.

Un espediente grafico che Pietro Grasso ha illustrato a Che tempo che fa: disegnate a lato della «ì» di «uguali», formano una «e» che indica il femminile plurale, «dimenticato» nella prima formulazione del nome. E richiamano l’idea di ambiente naturale…

Grasso non ha detto che le foglioline rappresentano le donne ma certo tutta la faccenda fa pensare che la toppa è peggio del buco.

simbolo liberi e uguali

Qualcuno ha osservato che il nuovo simbolo ha bisogno di un foglietto di istruzioni per essere decodificato, quasi fosse una medicina.

E quel riferimento all’altra metà del cielo appiccicato lì in extremis non depone a favore della credibilità della proposta politica.

Sarà il nome dell’ex magistrato a raddrizzare le sorti mediatiche e elettorali del simbolo? Per me è un altro fattore di perplessità e delusione: non c’era altra strada? Era indispensabile condire tutto così in fretta?

Forse c’è un nesso – così riesco a arrivare in fondo senza troppa fatica! – tra la polemica sulle donne-foglioline e il mezzo secolo di letture della società italiana da parte del Censis.

Che riassumerei nella progressiva sempre maggiore incapacità del ceto politico (e in termini più ampi della classe dirigente e degli intellettuali più o meno organici) a percepire adeguatamente le caratteristiche e le direzioni del mutamento, del divenire sociale di questo paese (e del mondo con cui è connesso).

Il volume di De Rita è intitolato Dappertutto e rasoterra, riprendendo una delle parole-chiave del punto di vista del Censis, che l’inventore del «Rapporto» in una densa introduzione non rinnega in alcun modo.

La ricerca parte nel 1967 e incontra subito «la moltiplicazione dei soggetti e delle loro autonome spinte: fu questa la prima constatazione – scrive De Rita – che compimmo alla fine degli anni Sessanta e che sarebbe stata un nostro riferimento fisso e solido».

L’Italia osservata così, a rasoterra, è quella che lungo gli anni ’70 si lascia alle spalle la «società semplice» del dopoguerra, e in parte del «Boom», e si articola in una pluralità di tensioni sociali e economiche, territoriali, individuali e collettive. Un «sommerso» vitale che sembra capace di svilupparsi anche prescindendo dalle politiche statali, peraltro negli anni progressivamente abbandonate.

De Rita e i suoi collaboratori non sono «sessantottini» ma questa visione incontra aspre polemiche.

Il capo del Censis ricorda le incomprensioni con la Dc di De Mita e anche con Craxi. Io ricordo le discussioni sul Censis che appassionavano dirigenti comunisti come Chiaromonte, Reichlin, Ingrao. Per lo più con riserve critiche, anche fondate.

C’era però una passione del comprendere. Ma il mutamento di quei decenni cruciali fu compreso molto poco.

La politica non riuscì a interpretarlo. Al vitalismo rasoterra, privo però di adeguato governo, è seguita l’Italia «mucillaggine» e, dopo questo decennio di crisi, l’Italia del «rancore».

La rivoluzione femminile esplosa in quello stesso periodo fu vista poco e male (e anche dal Censis in modo episodico): una sorta di storia parallela, un mondo a parte. Penso che indicasse e indichi ancora una radicale alternativa per tutti.

Ma la cecità maschile è ostinata.