Se lo storico Eric Hobsbawm l’aveva definito «secolo breve» racchiudendolo fra la Prima guerra mondiale e la fine del comunismo (1991), il critico Goffredo Fofi nel suo pamphlet uscito a fine 2020 è andato oltre. Un quarto di secolo, poco più di una generazione, è la durata temporale che assegna al Novecento in «Il secolo dei giovani e il mito di James Dean» (edito da La nave di Teseo). Per quale ragione il secolo scorso si ritrova così tanto accorciato? La gioventù del secondo dopoguerra, in un Occidente nel quale si erano affermate le democrazie, si scopriva consapevole e padrona del proprio futuro reclamando in primo luogo emancipazione da inveterate proibizioni o censure che fino ad allora avevano ottenebrato idee e ideali. Quel periodo irripetibile, di ribellioni e di passioni, che si concluderà nei secondi anni Settanta, prende avvio nella prima metà dei Cinquanta con l’imporsi nel cinema americano di attori dal forte realismo recitativo in personaggi, insofferenti alle regole, che assurgono da subito a modelli cui ispirarsi, a campioni da imitare per masse arrembanti di giovani. E il nuovo cinema, che riprende temi correnti tratti da una letteratura verista (che come tutte le letterature è però appannaggio delle fasce acculturate), è proprio alla portata di quelle masse. Per le quali gli idoli di celluloide hanno la mimica facciale, accigliata o tormentata, di Montgomery Clift, di Marlon Brando, di James Dean. Le loro movenze, i loro tic, le loro battute, diventano modi di replicare nella quotidianità dei tanti coetanei appena si ritrovano fuori delle sale cinematografiche disseminate, in quei due-tre decenni, fra la centralità delle metropoli e la periferia delle città di provincia.

Non tarda a porsi una contraddizione di fondo, insita nel sistema capitalistico: se il mercato si adegua ad assecondare con tempestività i consumi dei giovani (il giubbotto, i blue jeans, la motocicletta), questi sono comunque dipendenti dagli adulti circa il soddisfacimento di bisogni e sogni. Si è ancora lontani dal disegno di mutare un’antiquata ancorché generica realtà, ovvero, per i più convinti, dall’intento politico di stravolgere un assetto sociale giudicato oppressivo, per il quale vale la pena lottare e anche morire, che avverrà solo nel successivo decennio dei Sessanta. Si è spinti se mai a rivendicare esigenze spicciole e individuali covate in un ambito prevalentemente domestico; ci si oppone alla rigidità e all’imposizione dei propri padri, a principi immodificati tramandati supinamente nell’ambiente familiare nonché, allargando di poco l’orizzonte, all’autorità sacrale degli adulti. Di tutti gli adulti. C’è insofferenza di natura interiore, della vita provinciale, della noia che assale giacendo nell’ozio adolescenziale. Il ribellismo giovanile a metà dei Cinquanta, in fin dei conti, essendo motivato da disagi e malcontenti tipici dell’età, è solamente fine a sé stesso. Basta questo allora che pellicole quali «Il selvaggio» (1953) con Marlon Brando e «Gioventù bruciata» (1955) con James Dean diventino vessilli nei paesi dell’Occidente di una generazione di «ribelli senza causa», riprendendo il titolo originale del film-cult interpretato da Dean. Della «gioventù bruciata” »della quale James Dean è l’icona dal fascino senza tempo, ha fatto parte ogni gioventù più o meno protestataria e ribelle.

È facile capire come James Dean, schiantandosi con la sua Porsche spyder a soli 24 anni, si sia guadagnato nell’immaginario collettivo la gloria della giovinezza eterna. Ma la fama di Dean è andata oltre le sue qualità recitative. Il primo Brando si era aggiudicato con indubbio merito l’Oscar per «Fronte del porto» del 1954; in quel preciso momento però, a prezzo della freschezza recitativa, cessò di fare l’attore per calarsi nelle vesti manierate del divo; Montgomery Clift in «Un posto al sole» del 1951 aveva cominciato (come Brando in «Un tram che si chiama desiderio») a misurarsi con un’interpretazione cruda e moderna dalle apprezzabili sfumature psicologiche. Tutti e tre comunque, caratterialmente coincidenti con i loro personaggi, avevano imparato il mestiere in quella scuola di recitazione – che fece scuola – dell’Actor’s Studio di New York in cui s’impartiva il «metodo Stanislavskij», fondato sulla psicanalisi, da maestri come Lee Strasberg ed Elia Kazan. I milioni di giovanotti che affollavano i cinema non potranno che riconoscersi, restandone soggiogati, nei tre moschettieri arrabbiati e anticonformisti dello schermo. Meglio degli altri tuttavia, Dean, ultimo cantore dell’adolescenza, ha incarnato le diffuse esigenze dei suoi coetanei. L’immagine di figlio della classe sociale media, dalla faccia tutto sommato comune e rassicurante, è quella che più ha somigliato alla maggioranza degli adolescenti di allora e non solo. Così nacque il mito.

La «nouvelle vague» di fine ’50 portava un’ondata di libertà e spregiudicatezza che, oltre al cinema, investiva il modello politico, il sistema produttivo, la società tutta cui ci si approcciava con diversa sensibilità e rinnovato senso critico. Era scoccata la scintilla di prologo al ’68. Ma già in Francia circolava un manifesto con la scritta «Corri ragazzo, ché il vecchio mondo vuole riacciuffarti».