Evento: Valija Argentina, una selezione di fotolibri argentini prodotti da case editrici indipendenti (a cura di Erica Canepa) sarà ospitata da Leporello a Roma (15 febbraio-9 marzo 2018)

Buenos Aires, 21 novembre 2017. Non è proprio necessario (sfidando i luoghi comuni) ballare tango e milonga solo perché si è a Buenos Aires. Irrinunciabili, però, le empanadas da sbocconcellare durante le lunghe passeggiate in un novembre tinto del viola degli alberi di jacaranda in fiore, in giro per questa città così parigina ma con la disinvoltura e la simpatia tipica dei sud del mondo. Per tracciare una mappatura “imperfetta” della fotografia argentina si può cominciare condividendo un mate freddo (il tereré con succo di limone alla maniera di Corrientes e, in generale, del nordest dell’Argentina) preparato dalla fotografa italiana Erica Canepa (1980) che da qualche anno si è trasferita nella città porteña. Dal 25° piano (l’ultimo) dell’edificio in cui si trova il suo appartamento, nella zona di Almagro, il panorama sconfina in Uruguay e il tramonto sembra un fondale dipinto. Canepa che è da sempre attenta alla condizione umana sta lavorando al suo primo progetto editoriale, Abracadabra. Un lavoro che nasce dalla sua ricerca antropologica nel mercato di stregoneria di La Paz (Bolivia), contaminatasi con la cultura popolare argentina tra pozioni fatte con erbe medicinali guaranì e non (menta, ibisco, camomilla), animali essiccati (il feto di lama), un pizzico di superstizione e qualche icona religiosa come il Gauchito Gil, il santo-pagano più popolare di tutto il paese (tra gli altri anche l’artista Marcos López gli ha reso omaggio, mentre il fotografo Antonio Fernández gli ha dedicato una serie che è stata esposta in Europa nel 2008-2009). Non è un libro di stregoneria, ma una sperimentazione dove la fotografa lascia emergere la parte più fantasiosa di sé. Parallelamente è curatrice della Valija Argentina, una selezione di fotolibri argentini prodotti da case editrici indipendenti (solitamente hanno visibilità soprattutto attraverso manifestazioni come Felifa, la fiera del fotolibro latinoamericano di Buenos Aires), che sarà ospitata da Leporello a Roma (15 febbraio-9 marzo 2018). “In questo momento in Argentina l’editoria fotografica è molto viva.” – spiega la fotografa – “A Buenos Aires i due punti di riferimento più importanti sono TURMA e FoLa.” La prima è una piattaforma di produzione e distribuzione della cultura visuale latinoamericana il cui programma è pedagogico e focalizzato sulla produzione e pubblicazione di progetti fotografici (è anche la sede de La Luminosa, prima casa editrice fotografica del paese, nata dall’intuizione di Julieta Escard), mentre FoLa – Foto Galería Latinoamericana è anche uno spazio espositivo di tre sale che è stato inaugurato nel 2015. Dieci anni prima Gastón Deleau, uno dei suoi principali promotori insieme a Diego Costa Peuser, dava vita alla prima edizione di Baphoto – Buenos Aires Photo, fiera destinata a diventare un punto di riferimento internazionale per la fotografia contemporanea (la 14^ edizione si svolgerà dal 13 al 16 settembre 2018). Mentre al Nano Festival, che si prepara all’8^ edizione sotto la direzione artistica di Pamela Ghisla, va invece il primato di essere la prima rassegna dedicata ai fotografi emergenti. Il suo successo è confermato dai social con oltre 41mila “like” su facebook per il concorso “Nano busca un autor” che lo scorso anno ha premiato Zukunft di di Sarah Pabst. Anche il FoLa, che è stata sede delle ultime edizioni del Nano Festival, si occupa della promozione dell’editoria fotografica latinoamericana con un bookshop specializzato che dalla fotografia storica arriva a quella contemporanea.

Per quanto riguarda la manualistica di settore un punto di riferimento può essere la libreria El Ateneo, che, ospitata all’interno dell’ex teatro Grand Splendid, è un luogo di intramontabile fascino. Come ricorda Valeria González nel primo capitolo di Fotografía en la Argentina 1840-2010 (ArtexArte – Fundación Alfonso y Luz Castillo, 2011), utile strumento di conoscenza che ripercorre le tappe fondamentali della fotografia argentina, il dagherrotipo sbarcò sulla costa brasiliana nel 1839. A bordo della nave L’Orientale c’era l’abate Louis Compte che aveva imparato la tecnica direttamente da Daguerre; a lui sono attribuite le viste di Rio de Janeiro, considerate le immagini fotografiche più antiche del Sudamerica. In breve sulla nuova invenzione cominciarono a diffondersi notizie anche in Argentina attraverso gli articoli di giornale. Il 16 giugno 1843 La gaceta mercantil pubblicizzava la presenza di attrezzature nel negozio di Gregorio Ibarra, pochi giorni dopo apparve l’annuncio del nordamericano John Elliot che si dichiarava “pronto a scattare foto”.

Facendo un balzo cronologico di circa un secolo ci ritroviamo negli anni ’30, in un periodo di grande sviluppo della tecnica fotografica con figure chiave come la coppia Coppola-Stern, il cui lavoro si colloca tra la sperimentazione d’avanguardia e la produzione “utilitaria”. Horacio Coppola (1906-2012), figlio di immigrati italiani, oltre che essere uno dei maggiori narratori visuali di Buenos Aires, è anche l’autore dei ritratti del poeta Evaristo Carriego nel primo libro in prosa di Jorge Luis Borges. In Germania egli conobbe la sua prima moglie Grete Stern (1904-1999) e con lei organizzò a Buenos Aires, nel 1935, quella che viene considerata la prima mostra di fotografia moderna del paese. Quanto a Stern sono geniali e avvenieristici i fotomontaggi della serie Sueños realizzati nel 1948-51 per il settimanale femminile Idillio, collaborando all’interpretazione dei sogni delle donne con il sociologo Gino Germani (che usava lo pseudonimo Richard Rest) per la rubrica “Psicoanalisis le ayudara” (la psicoanalisi vi aiuterà). A Stern, autrice anche dell’importante documentazione Aborigenes del Gran Chaco, va anche il merito di aver creato e diretto dal ’56 al ’70 il laboratorio di fotografia del Museo Nacional de Bellas Artes.

Altrettanto decisivo fu il ruolo di Annemarie Heinrich (1912-2005) a cui è dedicato il bellissimo libro Un cuerpo, una luz, un reflejo (curato da Juan Travnik, Ediciones Larivière), pubblicato in occasione della retrospettiva organizzata dal Centro Cultural Recoleta (2004), a cui è seguita la mostra Annemarie Heinrich. Secret Intentions (a cura di Victoria Giraudo e Agustín Pérez Rubio) alla Fundación Malba di Buenos Aires (2015). Il suo lavoro, in parte dedicato alla moda e al cinema (nel 1937 venne chiamata da Angel Mentasti, fondatore di Argentina Sono Film, per realizzare le immagini pubblicitarie di suoi film come Nacha Regules e El otro yo de Marcela, nell’epoca d’oro del cinema argentino) è rappresentato dalla galeria Vasari che annovera anche altri importanti autori, fra cui Anatole Saderman (1904-1993), Pepe Fernandez (1928-2006), Alicia D’Amico (1933-2001) e anche Alicia Sanguinetti (1943), figlia di Annemarie Heinrich.

Un altro fotografo e pittore tedesco arrivato in Argentina per sfuggire al nazismo è Gustavo Thorlichen (1906-1986), fotografo delle dive e del potere (Perón e consorte) – conobbe anche il Che che lo cita nei Diari della Motocicletta – nonché autore di vari libri, incluso il fortunatissimo La República Argentina (1958) con prefazione di Borges. A parlare di lui è Alberto Baghino nella sua bottega nella galeria Buenos Aires a Florida 835. Ottantaquattrenne di origine un po’ italiana (papà genovese) e un po’ catalana, Alberto ha iniziato giovanissimo a lavorare nello studio di Thorlichen, di cui mostra orgoglioso una stampa vintage in cui è ritratto con gli altri giovani assistenti intorno al maestro nel suo studio al n. 450 di Reconquista. Dalle vetrine stracolme di apparecchi fotografici (ma non mancano rare curiosità come il teodolite francese del 1890), Baghino tira fuori le macchine con cui ha iniziato la sua professione (Pentax, Canon, Electra), insieme al lampeggiatore fotografico al magnesio che usò per fotografare dentro la basilica della Redonda de Belgrano “dove c’era Padre Felipe che diceva tante parolacce”, ricorda sorridendo. All’epoca ancora non esisteva il flash al tungsteno. La Leica, però, è stato il suo grande amore. Ecco perché non poteva mancare tra i tanti tatuaggi che ha sulle braccia, insieme al nome dell’amata e compianta moglie Elva, delle figlie e dei nipoti: “porto sempre la mia famiglia con me”, afferma.

Un altro incontro significativo è con Daniel Merle (191954), fotoreporter e curatore, photo editor per i supplementi e il domenicale del quotidiano La Nación (1997-2014), fondatore del Nano festival, attivo anche come teorico, docente di fotoreportage e membro di giuria al World Press Photo 2014, che a 17 anni ha iniziato la professione di “fotografo de prensa” collaborando con una rivista sportiva dove faceva un po’ di tutto. “Ero giovane e facevo militanza in un’organizzazione di sinistra,” – piega – “tutta la mia attività è stata interrotta per un periodo, intorno al 1975, perché fui preso. Ho pensato di riprendere la carriera di fotografo solo nel ’78-’79. Negli ultimi anni della dittatura, a partire del ’79 e con la guerra delle Malvine (aprile/giugno 1982), la maggior parte di noi giovani che stavamo in strada avevamo una doppia missione. Almeno per me è stato così. Non potendo canalizzare totalmente le mie idee politiche attraverso la mia militanza, l’ho fatto attraverso la fotografia, sia seguendo quello che succedeva nel paese che attraverso le notizie internazionali. La fotografia era un atto di militanza.soprattutto nella lotta per i diritti umani. Per molte asssociazioni, a partire dalle Madres di Plaza de Mayo, le Abuelas de Plaza de Mayo, il CELS (Centro de Estudios Legales y Sociales), la fotografia è stata lo strumento per far conoscere, soprattutto in Europa, la realtà che si viveva in Argentina. Il mio lavoro è stato sempre documentario, solo negli ultimi tre anni mi sono orientato verso l’arte che, del resto, ho studiato da ragazzo alla Escuela Nacional de Bellas Artes Manuel Belgrano. Anche l’attività curatoriale ha determinato un cambiamento della mia fotografia.” L’epoca d’oro del fotogiornalismo argentino (anni ’60 e ’70) vessò di colpo con la dittatura, quando i metodi stessi della repressione subirono un cambiamento. La censura non veniva più dichiarata esplicitamente, ma in maniera subdola facendo sparire in centri di detenzione chiunque fosse in odore di essere “nemico dello stato”. Eppure, malgrado “la scomparsa degli eventi” dalla stampa ufficiale, ci furono anche fotografi e giornalisti d’inchista coraggiosi, come Rodolfo Walsh che fu rapito il 25 marzo 1977 (il suo corpo non è mai stato trovato) il giorno dopo aver spedito agli organi di stampa locale ed estera la lettera sugli orrori della dittatura che comincia proprio con la censura della stampa. Ci furono anche gruppi di fotoreporter che si unirono fondando agenzie come Sigla Agency, ispirata a Magnum, che malgrado anni di minacce e l’esilio per molti membri, fu attiva fino al 1979. Tra i numerosi fotoreporter c’erano anche Adriana Lestido, Marcos Zimmermann e Liliana Porter. Merle ricorda anche un altro segnale importante che fu la prima mostra di fotogiornalismo, organizzata nel 1981 da fotoreporter con l’obiettivo di mostrare la realtà “senza trucchi né falsità”. Tra i 70 autori erano presenti anche Eduardo Longoni, Eduardo Gil e Guillermo Loiacono. La fine del lungo buio portò, negli anni ’90, ad una nuova consapevolezza e sviluppo sul ruolo della fotografia per la società, “in quegli anni sia il fotografo che il photo editor avevano un certo potere nell’informazione e nel processo di liberazione, oggi invece è quasi secondario.” Il post dittatura è segnato da un vero risorgimento in campo artistico, in parte legato alla riscoperta dell’arte concettuale degli anni ’60 e ’70, che era stata molto forte in Argentina e con il riconoscimento del lavoro di figure anticonformiste come Liliana Maresca (Buenos Aires 1951-1994), incentrato sull’utilizzo del proprio corpo come terriorio di sperimentazione dei diversi aspetti dell’identità. “Lo sviluppo dell’arte in generale era strettamente legato alla fotografia ed è in questo ambito che nascono grandi figure come quella di Marcos López (1958), più legata all’arte che non al fotoreportage.” – conclude Merle, citando tra le gallerie Rolfart, fondata nel 2009 da Florencia Giordana Braun – “Non parlo di fusione, piuttosto era come un vaso comunicante in cui si sono ritrovate tutte insieme la fotografia d’autore, il fotoreportage e la fotografia artistica.”