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Focillon, non archeologo ma poeta dei legami formali

Focillon, non archeologo ma poeta dei legami formali"Jongleur", terzo quarto del XII secolo, dalla chiesa Saint-Pierre-le-Puellier di Bourges, Lione, Musée de Beaux-Arts

Annamaria Ducci, "Henri Focillon en son temps. La liberté des formes", Presses Universitaires de Strasbourg Dalla migliore specialista dello storico dell'arte francese la lettura sfaccettata di un pensiero che fece del Medioevo, e non solo, un principio formale

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 6 febbraio 2022

«Si crede che io sia qui per insegnare l’archeologia. Che errore! Io insegno la poesia. Se questi signori lo sapessero, mi caccerebbero fuori a calci nel sedere». Quando Henri Focillon (1881-1943) si lasciò andare a questa esternazione, ricordata dal suo allievo Philippe Verdier, era da poco arrivato alla cattedra della Sorbona che era stata di Émile Mâle, dal 1923 direttore dell’École Française di Roma. Non era certo una successione scontata. Sin dagli anni in cui insegnava a Lione, Focillon aveva iniziato a percorrere vie diverse. Se la Storia dell’arte non aveva ancora trovato un posto stabile nell’insegnamento universitario, la medievistica era studiata solo all’École de Chartes, e si sarebbe dovuto attendere il 1887 perché all’École du Louvre Louis Courajod inaugurasse il corso di storia della scultura del Medioevo e del Rinascimento. Lo stesso Mâle concentrava i suoi sforzi esegetici più sui problemi iconografici, il suo insegnamento risentiva moltissimo dell’impostazione archeologico-documentaria, come nel libro del 1898 sull’arte religiosa del Medioevo.
Sin da quando era arrivato a Lione nel 1913, insegnando all’Università e parallelamente dirigendo il Musée des Beaux-Arts, Focillon aveva iniziato a distanziarsi da uno studio legato prevalentemente alle carte e ai documenti, per avvicinarsi sempre di più alle opere. Il suo sguardo cominciò a indagare quel passato lontano attraverso altre strade e altre categorie. Quando nel 1931 pubblicò L’arte degli scultori romanici. Ricerche sulla storia delle forme, la novità apparve in tutta quanta la sua portata. Sin dall’articolo uscito nel 1929, dedicato agli Apôtres et jongleurs romanici, aveva avanzato proposte interpretative che sottolineavano il rapporto, dinamico, tra figura scolpita e cornice entro la quale era racchiusa – non a caso il sottotitolo era «studi sul movimento». Rispetto a una lettura che vedeva nella posa del jongleur di Lione il risultato di uno slancio interno alla figura, Focillon ne rintracciava la genesi in rapporto all’architettura, cioè a una necessità di adattamento e armonia. L’insistenza sul nesso architettura-scultura sarà una chiave di volta nelle interpretazioni dell’arte medievale proposte da Focillon. È un modo nuovo, il suo, di guardare al rilievo e allo spazio scolpito. Questo è interpretato secondo le sue leggi geometriche, da un lato, e dall’altro a partire dall’elemento luministico e di superficie. Una sensibilità acutissima, quella di Focillon, verso gli elementi luministici, che gli derivava dalla lunga consuetudine con l’incisione, arte del chiaroscuro per eccellenza. Figlio dell’incisore Victor-Louis Focillon, il giovane studioso avrebbe non a caso dedicato la propria tesi dottorale a Piranesi. Ne sarebbe scaturito il celebre libro pubblicato nel 1918.
È a partire dalla complessa trama dei suoi studi, e non solo di quelli dedicati all’arte medioevale, che Annamaria Ducci ha scelto di affrontare il percorso di Focillon, in un libro appena pubblicato dalle Presses Universitaires de Strasbourg: Henri Focillon en son temps La liberté des formes (pp. 391, € 26,00). Ducci, che dello storico dell’arte francese è oggi la migliore specialista, ha scelto di non scrivere una biografia, suddividendo il testo in quattro sezioni, che scandiscono altrettanti nuclei tematici del lavoro di Focillon. Inoltre il libro dà conto di un’intera stagione della storia culturale del Novecento. Dopo il capitolo introduttivo, in cui sono sunteggiate le vicende biografiche, davanti al lettore si squaderna una mappa che permette di attraversare il continente degli scritti e degli studi, di volta in volta riconnettendoli al più ampio sfondo storico-culturale. Nel corso della trattazione alcuni temi ritornano, affrontati da punti di vista diversi per metterne in luce la complessità e le sfaccettature, il tutto attraverso una scrittura lucida e tesa, che fa emergere il posto che Focillon occupa tra i suoi contemporanei e le novità dei suoi studi.
La scelta di impostare così il volume si è rivelata felice, perché alla fine si guadagna una maggiore consapevolezza di problemi che, osservati a quasi un secolo di distanza, spesso è difficile ricostruire nella loro complessità. Inoltre, l’approfondita indagine archivistica ha permesso a Ducci di dar conto delle sfumature e dell’evolversi delle posizioni dello studioso nel corso degli anni. Se certo il baricentro del libro si situa negli studi medievistici, nondimeno emergono anche i vari e diversificati interessi di Focillon, che non era certo estraneo alle forme dell’arte a lui contemporanea – basterà citare il volume del 1928 dedicato alla pittura del XIX secolo. Tra i molti punti di forza del volume sta nell’attenta analisi degli scritti di Focillon, che ne rintraccia i presupposti e ne indaga i rapporti tanto con i lavori di altri storici dell’arte quanto, più in generale, con la cultura contemporanea.
Ma qual è, quindi, il Medioevo ‘di’ Focillon? Rispetto a Mâle, per il quale l’arte dei secoli alti incarnava lo spirito religioso dell’epoca, quella di Focillon è una visione laica del Medioevo, che tiene conto del complesso rapporto che lega le forme artistiche alla propria epoca non solamente sub specie religiosa. Ma è anche un Medioevo geograficamente diverso rispetto a quello descritto dal suo predecessore alla Sorbona, il quale vedeva nelle regioni del sud (soprattutto Provenza e Linguadoca) i centri propulsori dello stile romanico, cresciuto anche sull’esempio delle molte sculture classiche che in quelle regioni si conservavano. La novità di queste letture stava anche nella loro forte radice formalista. Il legame di Focillon con le teorie formaliste tedesche, tema centrale per la comprensione del suo pensiero (che però, allo stesso tempo, pare sfuggire a una messa a fuoco precisa) è oggetto di un intero capitolo, in cui Ducci mette in fila e ricapitola i diversi sentieri che uniscono lo studioso – non a caso indicato come il primo vero formalista francese – alle teorie di Konrad Fiedler, Alois Riegl e Heinrich Wölfflin.
Ma i legami con l’altra sponda del Reno riemergono anche in altri punti del volume, come ad esempio nella serrata analisi che mette a confronto le posizioni de L’arte degli scultori romanici e il libro che Wilhelm Vöge aveva pubblicato nel 1894, dedicato all’emergere dello «stile monumentale» nel Medioevo, libro che Focillon dovette meditare a lungo.

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