Foa ce l’ha fatta per un pelo: 27 voti a favore, 3 contrari (i 2 di Leu più un misterioso franco tiratore), 1 scheda bianca e 1 nulla. Il Pd aveva deciso di non partecipare al voto: una mossa improvvida, anche perché, in questo modo, non c’era nessuno in ufficio di presidenza a controllare eventuali errori o irregolarità nel voto.

Forza Italia invece onora l’accordo di Arcore e non solo concede il semaforo verde ma rovescia il verdetto dello scorso primo agosto e vota a favore.

Non è una sorpresa. L’audizione del candidato Foa, ieri all’ora di pranzo, era fatta apposta per concedere al partito azzurro un alibi e permettere ai berlusconiani di cambiare voto accampando almeno una esilissima scusa.

Nell’audizione, Foa esordisce ironizzando, «sono pronto a deporre», poi se la cava bene nei toni: misurati, quasi umili, ma glissa sugli appunti più acuminati che non mancano. Il fianco più esposto è quello delle fake news: qui i capi d’accusa sono davvero troppi per far finta di niente.

Decine di notizie surreali e allarmiste rilanciati come se niente fosse, inclusi i riti voodoo e cannibaleschi nella tragedia di Macerata. È che «i social inducono scelte impulsive».

Comunque tra ritwittare e scrivere di proprio pugno «c’è una differenza molto netta. Ritwittare non significa condividere». La teoria è bislacca ma i commissari non sono convenuti per discutere di comunicazione. Devono assolvere a un rito e la liturgia è salva anche se a spese della logica.

Dove non può scivolare, il neo-presidente semplicemente non risponde, come quando De Petris (LeU), gli rinfaccia l’entusiasta prefazione a un libro nel quale si rivela come il mondo sia dominato da una setta di discendenti di Carlo Magno, tra i quali Barack Obama, George Washington e Winston Churchill.

Foa finge di non sentire. Un capitolo particolarmente spinoso sono gli attacchi contro il capo dello stato. Equivoci: «Mai stata mia intenzione offendere o mancare di rispetto al presidente Mattarella». È capitato…

Attento a calibrare le parole, Marcello Foa incorre in una sola gaffe. Quando, per sostanziare l’impegno a garantire «un’informazione libera e plurale» aggiunge che questo è del resto il «mandato del governo». Ma le forme hanno la loro importanza e il governo non ha facoltà di dare al presidente della Rai alcun mandato. Il Pd si butta a pesce sul capitombolo, protesta e chiede chiarimenti, Ma tant’è: a Fi basta e avanza. Mulè si sente «rassicurato» e sulla scorta di tanta rassicurazione informa che il partito azzurro è «orientato al sì».

Per la verità il presidente ancora in pectore neppure finge che la riunione abbia significato più che formale. La lista dei suoi obiettivi è una fiera delle ovvietà: «Far crescere la Rai, sviluppare un’informazione corretta, premiare professionalità e meritocrazia, promuovere e ampliare la straordinaria missione culturale della Rai». Tutto, sia chiaro, senza invadere il campo dell’ad Salini e «attenendosi scrupolosamente» ai limiti del mandato del presidente.

Unico guizzo, l’obiettivo di riavvicinare al servizio pubblico i giovani in continuo esodo, ma senza specificare neppure alla lontana come immagini di centrare l’ambiziosa meta.

Terminata la messa in scena, con esplicito tripudio M5s, le altre caselle dei vertici di viale Mazzini saranno riempite con celerità.

Quella del Tgr verrà coperta dall’ad con un interim ma passerà poi al Carroccio, che non è riuscito a strappare la direzione del Tg1, alla quale siederà quasi certamente Alberto Matano, mentre la direzione di rete sembra già quasi assegnata a Marcello Ciannamea, quota Carroccio.

Parti invertite sulla seconda rete, con il Tg2 a un leghista, forse Genny Sangiuliano, e la rete a una 5S, con Maria Pia Ammirati.

Conclusione prevista già lunedì. Seguirà brindisi alla fine della lottizzazione.