Dopo la pausa di quattro mesi, e con l’annuncio di una manovra «monstre» fatta dal ministro dell’Economia Tria nell’introduzione al testo del Def, tornano sulla scena le tensioni internazionali sul bilancio italiano. Due giorni fa il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) ha lanciato una previsione allarmistica sulla relazione tra la crescita del debito sovrano e il sistema bancario, evidenziando una crescita del deficit/Pil nel 2019 al 2,7% e non più all’1,7% calcolato in autunno. Nel 2020 il dato è atteso al 3,4% e non più all’1,9 per cento. Tra l’altro l’Fmi ha chiesto il ripristino di una tassa sulla casa, nell’ambito di un’ampia riforma fiscale, nettamente respinta dal governo. Ieri la direttrice dell’Fmi Christine Lagarde ha ribadito la necessità di «individuare misure credibili» per sostenere la crescita e ridurre il debito. «Sono rassicurata dal processo che in Italia è stato intrapreso nel settore bancario – ha detto – Certamente il lavoro è iniziato, ma c’è ancora ulteriore lavoro da fare».

Curiosamente il lavoro «da fare» indicato dall’Fmi, teoricamente un avversario ideologico dei «populisti», coincide almeno su un punto con le intenzioni del governo: per diminuire il debito (quest’anno doveva scendere al 130,7% del Pil, ora corre al 132,6%), oltre che per finanziare la sterilizzazione delle clausole Iva (23 miliardi), senza parlare della liberista «flat tax» (12-15 miliardi) promessa agli elettori per le europee del 26 maggio, si tratta di privatizzare e realizzare dismissioni. Per quest’anno il governo avrebbe addirittura previsto 18 miliardi, a cui si sarebbero aggiunti più di un altro miliardo evocato nel Def. Sempre che tutto questo sia possibile, l’indicazione sarebbe quella di dettagliare questo progetto inquietante, a dir poco. E questo al netto di un’ancora imprecisata «spending review» e di un’altrettanto vaga promessa di rimodulare 450 detrazioni fiscali. Lagarde considera «imperativo» in un contesto di rallentamento della crescita attuare «riforme strutturali per rafforzare la produttività. Il rilancio della «produttività» sta a cuore anche al governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco che ieri da Washington ha espresso dubbi sui pilastri di Lega e Cinque Stelle: «reddito di cittadinanza» e «quota 100». Per Visco aiutano la «domanda aggregata» ma potrebbero non incidere sulla «produttività». Dal rallentamento europeo non è immune l’Italia, che in più soffre di un «problema strutturale» di crescita. «A questo si aggiunge che l’Italia ha avuto dal 2009 al 2014 la crisi peggiore dal 1861 e non si è ancora completamente ripresa» ha detto Visco. L’invito è sempre quello di tenere sotto controllo il debito e di fare le «riforme strutturali». Per capire quali sono, basta il riferimento alle riforme varate dopo la crisi del debito che, per Visco, hanno avuto successo. Allora furono la riforma fornero, in seguito il Jobs Act. Proprio quello che Salvini e Di Maio non vogliono sentire. Non perché abbiano la forza di cambiarle strutturalmente: quota 100 è una «finestra», il sistema pensionistico resta lo stesso; il Jobs Act non sarà cambiato. Insomma: un equivoco in un dialogo tra sordi. L’esito della contesa rischia di essere rovinoso. La prossima legge di bilancio sarà superiore ai 40 miliardi e, con ogni probabilità, i valori della crescita (+0,2%) e del deficit (2,4%) saranno peggiori.

Nel frattempo l’Ocse ha ricordato ieri che l’Italia è al terzo posto della graduatoria internazionale dell’Ocse 2018 per il peso del cuneo fiscale ovvero le tasse che gravano sulla busta paga. La media delle tasse sul lavoro ha segnato un calo al 36,1% lo scorso anno (-0,16 su anno). Dando uno sguardo alla classifica complessiva, i tassi di carico fiscale maggiore sui salari di lavoratori single senza figli a carico sono stati registrati in Belgio (52,7%), Germania (49,5%), Italia (47,9%), Francia (47,6%) e Austria (47,6%). Considerato lo scenario economico generale, c’è sempre tempo per crescere, almeno in questo caso.