Non era più un membro della band teutonica dal 2008 ma Florian Schneider – morto dopo breve malattia pochi giorni dopo aver compiuto 73 anni – insieme a Ralf Hutter ha dato vita nel 1970 ai Kraftwerk («centrale elettrica»), il quartetto tedesco che ha saputo portare la musica elettronica sui tracciati del techno pop diventando un punto di riferimento per la musica degli anni 70 e dei decenni a seguire. «Feticista del suono», così lo definiva in un’intervista il compagno Hutter, Schneider si servì nel tempo di diverse tecniche per suonare il sintetizzatore, comandandolo inizialmente mediante un flauto elettronico (e-flute), ideato da lui stesso e realizzato da Peter Bollig, fino ad utilizzare, grazie all’avvento dei computer, i sequencer virtuali, primo fra tutti il Cubase. Oltre a suonare i sintetizzatori, Schneider contribuì come cantante secondario in alcuni brani, filtrando la propria voce mediante vocoder. Nel 2015 ha pubblicato da solista il singolo Stop Plastic Pollution.

NEI PRIMI progetti sperimentali, Schneider e la band giocano con rudimentali batterie elettroniche, sintetizzatori e moog. Producono suoni bombati e suite minimaliste che con il tempo si aprono a mutazioni melodiche, facendosi strada nelle classifiche. Un sound a cui si ispira palesemente Giorgio Moroder e la scuola disco di Monaco, e nel decennio successivo protagonisti della scena britannica come i Depeche Mode e gli Human League, arrivando a influenzare anche l’hip hop: numerose sono le interpolazioni utilizzate da star d’oltreoceano sfruttando il catalogo della band. Anche David Bowie riconosce Schneider come uno degli ispiratori della sua svolta berlinese, in particolare nella traccia V-2 Schneider inserita nell’album Heroes (1977). Un cammino lungo dieci album da studio, dischi dove la band riesce nel tentativo di trasportare le avanguardie (territori delle prime sperimentazioni) sulla pista da ballo, in un unione tra uomo e macchina, cuore e cervello, carne e metallo. E sei nei primi seminali lavori che portano il loro nome si concentrano sulla parte ritmica, in una sorta di trasposizione musicale della ’rivoluzione industriale’, da Ralf & Florian (1973) – in una fase in cui Ralf e Florian restano in due – accostano glacialità a suoni più accessibili, anticipando una svolta pop.

CHE ARRIVA a dodici mesi di distanza quanto esplode – letteralmente arrivando al quinto posto della classifica americana di Billboard – Autobahn, che con la immaginifica e omonima suite di 22 minuti esplora territori sconosciuti. Radio-Activity (1975) – che li lancia anche nelle classifiche italiane – è un concept basato sui temi della comunicazione radio: elettronica alternata a improvvisi silenzi, come vuole la scuola avanguardista di John Cage. È la prima volta che la band canta in inglese e muove i suoni sui 4/4 della disco in un tripudio di transistor, sequencer e suoni telegrafici. Con Trans Europe Express (1977) arriva la definitiva svolta verso il pop, complice il tema che intitola il disco e che li porta nei paradisi dei dancefloor, lasciando però spazio anche per una romantica Franz Schubert.

MA IL CAPOLAVORO di Schneider e soci è l’uomo macchina – The Man Machine (1978), con il quartetto che si staglia in primo piano sulla copertina: stesso taglio di capelli, stessa camicia sgargiante rossa e cravatta nera. È l’apoteosi del synth e dei ritmi glaciali trasformandosi «definitivamente» in automi in The Robots, dal beat implacabile, catapultandoli in Metropolis, in un’agghiacciante realtà. Nei decenni successivi, i Kraftwerk accentuano sempre più l’importanza della parte visuale dei loro live, arrivando a un visionario live in 3D – presentato in anteprima al Moma nel 2017 – con cui avrebbero dovuto quest’anno (fermati dal Covid-19) celebrare i 50 anni di carriera con un tour nord americano.