Nel 1926 la Madonna di Vladimir, una delle icone russe più venerate, venne privata del sontuoso rivestimento in lamina d’oro che la ricopriva ed esposta come un dipinto «qualsiasi» nelle sale del Museo Storico di Mosca in occasione della Terza Mostra del Restauro. Tra i visitatori confluiti sulla Piazza Rossa per ammirarla vi fu anche un prete dal profilo «angoloso e nasuto» (così lo descrisse l’amico Andrej Belyj) che commentò quella letterale «spoliazione» con un’imperturbabilità che potrebbe apparire sorprendente, considerando l’abito talare da lui indossato: «Ora non La attorniano più né oro, né pietre preziose. Né lampade, né ceri. Ma questa povertà tintinna più di mille rivestimenti sfarzosi. Ciò che nell’icona di Vladimir è stato creato ‘non dall’uomo’ farà risuonare il Suo non tacitabile canto ovunque. In un museo come in una cattedrale».
Tale reazione cessa di stupire se si tiene conto che il pope in questione era Pavel Florenskij, attivo tra il 1918 e il 1920 nella Commissione per la tutela dei monumenti e delle antichità della Lavra della Trinità di San Sergio, e quindi coinvolto a pieno titolo in quel travagliato processo di salvaguardia dell’arte religiosa antica nazionalizzata dai bolscevichi che nei decenni successivi porterà al restauro e alla musealizzazione delle opere stesse. Spogliata dall’ingombrante opulenza delle rizy (i rivestimenti in lamina metallica che la ricoprivano), l’icona diventava finalmente leggibile; a offrirsi allo sguardo non era più solo il volto del santo, bensì la tavola dipinta nella sua interezza. Lampante appariva anzitutto l’audacia con cui i pittori di icone infrangevano le regole della prospettiva lineare, includendo ad esempio nella medesima scena dettagli e piani non visibili simultaneamente.
A tali «trasgressioni» nient’affatto fortuite e all’effetto estetico così ottenuto, Florenskij aveva già dedicato nel 1919 La prospettiva rovesciata, scritto concepito nell’ambito delle attività della Commissione e poi letto il 29 ottobre 1920 durante una seduta della Sezione bizantina dell’Istituto moscovita di ricerche storico-artistiche e museologia presso l’Accademia russa di storia della cultura materiale del Narkompros. Ma a ulteriore conferma del suo sforzo di pervenire a un’analisi della grammatica formale dell’icona deponeva anche il coevo Iconostasi, scritto tra il 1918 e il 1920 e pubblicato solo nel 1972. Qui le «porte regali» (così Elémire Zolla aveva reso il termine ikonostas nell’edizione Adelphi del 1977) erano interpretate come soglia e punto di trapasso: «…il velo del visibile per un istante si squarcia e attraverso ad esso (…) ecco, invisibile soffia un alito che non è di quaggiù: questo e l’altro mondo si aprono l’uno all’altro…»
A questa riflessione sulla natura metafisica dell’icona Florenskij affiancò in La prospettiva rovesciata una ricognizione più «tecnica». Si tratta di un testo probabilmente già noto al lettore italiano, in quanto tradotto da Nicoletta Misler e Carla Muschio per l’editore romano La casa del libro nel 1983, e poi ristampato più volte da Gangemi tra il 1990 e il 2005. Adelphi lo propone ora nella ritraduzione di Adriano dell’Asta («Piccola Biblioteca», pp. 152, euro 14,00) con la chiara volontà di creare un dittico col già citato Le porte regali e di accostarlo all’altro titolo florenskiano presente in catalogo, ovvero il trattato sulla spazialità e le lezioni tenute al VChUTEMAS raccolte della stessa Misler nel volume Lo spazio e il tempo nell’arte. Se la nuova resa ha il pregio di presentare il testo nella sua completezza, basandosi sulla versione integrale pubblicata in Russia nel 1999, l’assenza di un apparato iconografico (qui ben più indispensabile che nelle Porte regali) priva il lettore di quel ricchissimo ed eterogeneo repertorio visivo che innervava le riflessioni di Florenskij. Un universo figurale che invece si staglia in tutta la sua evidenza nell’edizione Gangemi, in perspicua e rigorosa connessione con altri scritti dello stesso periodo.
Difficile infatti considerare La prospettiva rovesciata un capitolo isolato della sterminata produzione florenskiana. Se non altro perché l’autore, docente presso la scuola sperimentale VChUTEMAS tra il 1921 e il 1924, si ritrovò al centro della polemica che infuriava tra produttivisti e sostenitori della pittura «pura» da cavalletto, e fu dunque costretto a tornare sulle posizioni espresse nella conferenza del 1920, onde difendersi dalle accuse di «misticismo» che gli erano state mosse sulle pagine della rivista costruttivista «LEF». Evocando con suprema disinvoltura tutta una serie di esempi – dalla Casa dei Vettii di Pompei a Giotto, dal Piero di De perspectiva pingendi fino alle Nozze di Cana del Veronese – e non rinunciando neppure a un’incursione nel disegno infantile, Florenskij ripercorre le alterne vicende della prospettiva lineare nella storia della pittura, soffermandosi tanto sulle sue eclissi quanto sulle sue prepotenti riapparizioni. E lo fa partendo dal presupposto che in nessun caso essa possa essere considerata una modalità «naturale» di percepire il mondo o, peggio, una proprietà inerente alle cose. Le motivazioni d’ordine religioso – e qui l’autore ammette il suo debito verso Moritz Cantor – per cui gli antichi Egizi rifiutavano di servirsene, pur possedendone le basi, farebbero invece ipotizzare che la prospettiva non sia che una delle tante possibili forme di espressione simbolica, e pertanto rifletta una determinata visione dell’essere.
A tal riguardo, se il soggettivismo dell’uomo rinascimentale trova la sua manifestazione in una pittura illusionistica che mira a creare «simulacri», l’artista del Medioevo, disattendendo le regole della prospettiva lineare, rende visibile la natura simbolica della realtà. Qui Florenskij riprende una polemica antiborghese e anti-individualistica profondamente russa che risale alle elucubrazioni di Dostoevskij, ma al contempo apre anche al pensiero semiotico – e, non a caso, il testo della Prospettiva rovesciata sarà pubblicato per la prima volta a Tartu nel 1967. Un’eco lotmaniana pare infatti risuonare nell’affermazione secondo cui è l’infrazione di ciò che è elevato a norma a disinnescare gli automatismi della percezione e quindi a produrre un effetto estetico. Le trasgressioni dei pittori di icone rivelano dunque la natura segnica dello spazio rappresentato, ricordandoci come «…le forme devono essere comprese secondo la loro vita ed essere raffigurate in sé e per sé», non negli scorci di una prospettiva predisposta in anticipo.