Mi piacciono i vecchi. È una frase un po’ azzardata, che non si non ci si aspetterebbe di sentire da una donna, diciamo, ancora giovane, eppure quando vedo per strada dei signori anziani, magari col bastone, con gli occhi bombati, con delle grandi protuberanze al posto delle occhiaie, bagagli gonfi degli anni vissuti.

Quando vedo questi signori, che sono tanti, che si nascondono, che spariscono in questa bolgia di gioventù assatanata di vita, capisco di preferire gli anziani, la loro calma, la loro lentezza, il contatto diretto con il tempo, quello che c’è già stato in forma di passato, quello che stanno vivendo, quello che presto passerà. Preferisco l’esperienza, gli occhi stratificati di immagini, una sopra l’altra, come in una torta millefoglie in cui ogni strato rappresenta un’era. Alcuni sono arrabbiati con la vita, con i propri parenti, non digeriscono le frustrazioni che hanno dovuto vivere, gli insuccessi, lo schianto contro sistemi, dogmi, governi che non li hanno rappresentati. È come se sentissi tutte queste cose che immediatamente si proiettano su di me che divento schermo, spugna, come se acquisendoli addosso come un cammello che fa scorta d’acqua prima di affrontare il deserto mi possa proteggere dal tempo che si scaglia ogni giorno violento anche sulle mie spalle.

Avrebbe centoventidue anni oggi.
(Solo una persona al mondo, pare, ci sia arrivata: la francese Jeanne Louise Clement 122 anni e 164 giorni – Arles, 21 febbraio 1875/Arles, 4 agosto 1997 – l’essere umano più longevo al mondo di cui si abbia avuto notizia certa). Ne ha vissuti invece quasi novanta, Florence Henri. Eppure io non l’avevo mai sentita nominare, per ignoranza o per la poca attenzione che si dà alle donne artiste. Fino a quando non ho visto questo parapedonale a piazza della Libertà che annunciava una mostra di tal Florence Henri al Museo delle Terme di Diocleziano. L’immagine mi acchiappa, decido di andare.

Nel 1930 l’artista sceglie la strada dell’auto ritratto e si fotografa allo specchio, inserendo nell’immagine porzioni di riflesso a comporre un quadro elusivo di sé. Palle, linee di confine a separare, scomporre per ricomporre come poesie in cui i versi non chiasmano mai, nessuna rima, solo nature morte: petali di rose con buste da lettera su riflessi di rose. Esposizioni multiple: ruote, ingranaggi, scale, gradini, pali di legno con bandiere fondo mare, menhir in Bretagna, gigantesche scatole di sale in primo piano dietro solo onde, cactus, profili umani e poi cibo: mele uva pere all’incontrario nel piatto con ombra e spigoli, persiane tra cui si vedono altre finestre, giochi di specchi senza specchi, rimbalzi surrealisti sapienti dentro all’esperienza ludica dello sguardo unico.

E ancora: vasi fiori, riflessi di disegni, di sedie impagliate o di ferro, effetti di luce e ombre, vetrine in cui si confondono manichini e persone, immaginario collettivo elementare che, con un salto in avanti, compie un’operazione artistica di alta qualità . Cosa deve essere stato essere una donna artista in quell’epoca a Parigi in mezzo a coloro che diventarono i mostri sacri del Surrealismo, della Bauhaus, dell’Astrattismo, dell’arte contemporanea del Novecento?
«Cara Monti (soprannome della fotografa), questo lei non lo avrebbe immaginato ma nel mio catalogo di Stoccarda è annotato in grassetto, dietro Florence Henri: ‘la migliore’. Ed è vero». Firmato Josef Albers. Scusate se è poco.

Fabianasargentini@alice.it