Sono quasi quaranta gli anni che separano la prima esposizione su Florence Henri nel 1978 al Musée d’Art moderne de la Ville de Paris da quella appena inaugurata (aperta fino al 17 maggio) al Jeu de Paume, curata da Cristina Zelich: Florence Henri Miroir des Avant-gardes (1927-1940). Le sue fotografie, oggi come allora, testimoniano la singolarità di una ricerca estetica che per temi svolti e questioni poste rappresenta un nodo centrale nella storia delle avanguardie artistiche del secolo scorso. In entrambe le mostre, ma soprattutto in quella attuale, non si sarebbe giunti ad apprezzare così bene il valore dell’artista senza il lavoro d’indagine di Alberto Ronchetti e Giovanni Battisti Martini: due giovani galleristi genovesi che all’inizio degli anni settanta incontrano in più occasioni Henri a Bellival, un piccolo centro dell’Oise, ricostruendone nei particolari le fasi del suo percorso artistico prima della scomparsa avvenuta nel 1984.

Martini ne ripercorre nel catalogo (Édition Photosynthèses & Jeu de Paume) i momenti più significativi. Florence Henri nasce a New York nel 1893 da madre tedesca e padre francese, ma è orfana da bambina. La sua adolescenza è un assiduo girovagare: nel 1902 è a Parigi dove entra in collegio e studia il pianoforte, nel 1906 si trasferisce nell’isola di Wight dove vive tre anni prima di giungere nel 1907 a Roma ospite della sorella del padre, Anny Gori, moglie di Gino Gori, tramite i quali conosce Marinetti, Russolo e D’Annunzio. A Roma frequenta l’Accademia di Santa Cecilia dove incontra Ferruccio Busoni, che sarà il suo maestro a Berlino dove si trasferisce tra il 1912 e il 1918 per perfezionare lo studio del piano. È nella capitale tedesca che matura il proposito di abbandonare la musica per la pittura, consapevole, forse, che non sarebbe mai potuta diventare un’affermata concertista ma altresì convinta che cimentarsi in altre discipline artistiche non sarebbe stato un ripiego, considerando la scelta nella prospettiva dell’«arte totale» (Gesamtkunstwerk). Musica e arti figurative, infatti, si incontrano nelle esposizioni della Galerie Der Sturm, dove espongono gli artisti del Blaue Reiter, i futuristi italiani e gli espressionisti francesi, e nel primo Salone d’Autunno (Herbestsalon) tedesco. Tra gli anni dieci e venti Henri inizia ad assorbire le molteplici espressioni dell’astrattismo che scopre sia nei corsi di pittura che frequenta a Berlino (Walter-Kurau), a Düsseldorf (Einrich Nauen) e a Weimar (Klee e Kandinskij al Bauhaus), sia nel confronto diretto con gli artisti con cui entra in contatto: da Hans Richter a John Heartfield, da Hans Arp a Làszlò Moholy-Nagy, da Ivan Puni a Carl Einstein, lo storico dell’arte con il quale stringerà una forte amicizia.

Come notò Paolo Barbaro nel 1998, è difficile stabilire la «genealogia» del linguaggio fotografico di Florence Henri. Tuttavia è certo che se la fotografia sarà il suo interesse prevalente quando nel 1924 lascerà Berlino per Parigi, è nella sua formazione berlinese che vanno individuati i diversi modelli ai quali la Henri guarda con interesse, diversamente dalle tecniche (pittoriche, grafiche, cinematografiche) che invece non prenderà mai in considerazione per la loro esclusiva autonomia formale. La mostra parigina tralascia di riannodare i fili con gli anni della formazione, che sarebbero stati abbastanza facilmente ricostruibili attraverso una scelta di opere di artisti del suo entourage. Si è preferito iniziare con gli Autoritratti e i Doppi ritratti degli anni 1927 e 1928, nei quali se è evidente la lezione di Moholy-Nagy – teorico di un uso «produttivo» e creativo del mezzo fotografico al fine di rifondare nuovi linguaggi comunicativi – può risultare riduttivo l’univoco riferimento allo stile Bauhaus. Due almeno le ragioni: è documentato che la Henri a Dessau non si dedica alla fotografia, inoltre che al Bauhaus la fotografia inizia a essere insegnata solo dal 1928 con Walter Peterhans e quando Moholy-Nagy lascia il suo Vorkurs a Josef Albers. La «quantità incredibile di idee sulla fotografia» che l’artista confida in una lettera al suo amico Lou Sheper allegandogli i ritratti allo specchio di altri due suoi amici, lo svedese Charly e Margarete Schall, maturano, quindi, in ambienti diversi da quelli della famosa scuola.

Rimarcare quest’aspetto significa confermare che le riflessioni di Florence Henri su una nuova visualità sono in quegli anni un’assoluta novità, confrontabile solo con quella di pochi altri artisti. Lo comprese bene Rosalinda Krauss, che volle inserire l’Autoriritratto di Florence Henri trattando la fotografia dei surrealisti, pur riconoscendo una «leggera distorsione» nell’accostamento. Lo specchio, che così ripetutamente troviamo in molte composizioni fotografiche dell’artista, è solo un espediente per distogliere il nostro sguardo dal contenuto e definire l’inquadratura così come anni dopo fece Man Ray (Monument à Sade, 1933). Dichiarò la Henri: «Io non cerco né di raccontare il mondo né di raccontare i miei pensieri». Aggiungendo: «Tutto quello che conosco e il modo in cui lo conosco è fatto anzitutto di elementi astratti: sfere, piani, griglie le cui linee parallele mi offrono grandi risorse e anche specchi che sono da me usati per presentare in una sola fotografia lo stesso soggetto sotto diverse angolazioni». La realtà attraverso la macchina fotografica le risulta così dilatata e la sua scrittura fotografica comincia a incontrare adesioni in pubblicazioni («Foto Auge», «Die Form», ecc.) e in mostre: Film und Foto (1929) – organizzata a Stoccarda dal Deutscher Werkbund, la annovera insieme a Weston, Kertész, Rodtchenko, Man Ray e Beaton – e subito dopo Das Lichtbild a Monaco (1930) e Foreign Advertising Photography a New York (1931).

Il repertorio dell’artista durante gli anni trenta è ricco di ogni genere di espedienti tecnici e tematici, sempre però dominato dalla «forma inquadrante» attenta e rigorosa del soggetto fotografico. La città è presente con i suoi elementi industriali e meccanici estrapolati dal loro contesto per inediti assemblages. Tuttavia se nelle Composition abstraite si riscontra il debito con Léger (suo insegnate all’Académie Moderne), così come nella fotografia Marsiglia (1929) il riferimento è ai tagli obliqui di Rodtchenko, una diversa sintesi regola la composizione delle sue fotografie. Sempre in equilibrio tra realtà e artificio, la Henri non cederà mai alla pura astrazione, piuttosto, quasi in controtendenza, si orienta a investigare le forme della natura (e della Storia) praticando il raddoppiamento dell’immagine con le più diverse tecniche: dalle esposizioni multiple al collage. Nelle sue Nature morte è riprodotta la frammentazione e la moltiplicazione del soggetto con l’inserimento di specchi inclinati tra i frutti o le foglie in primo piano che generano una percezione dinamica della composizione, con un rinvio all’estetica cubista e futurista che rappresenta il passaggio verso quella «metafisicità» che segna le fotografie su Roma.

Concentrati nel Foro Romano, gli scatti sono eseguiti nell’inverno tra 1931 e il 1932 e produrranno una serie di fotomontaggi nei quali tutto è dato sotto forma di rovina. Ancora una volta l’immagine, ricomposta con fantasia nella sua dimensione astorica, è fissata per frammenti e secondo diversi punti di vista, senza alcun sentimento di malinconia, piuttosto di voluto straniamento. In questo Florence Henri intuì ciò che Baudrillard esporrà nella sua filosofia molti decenni dopo. Ad esempio la perdita di senso che deve distinguere l’atto del vedere e la composizione dell’immagine fotografica. «L’intensità dell’immagine è commisurata alla sua negazione del reale – scrisse il filosofo francese – e all’invenzione di un’altra scena». Se esaminiamo le fotografie pubblicitarie che la Henri realizza per importanti aziende (Maison Lanvin, il pastificio La Lune, la casa discografica Columbia) all’oggetto da reclamizzare sono state tolte «tutte le sue dimensioni: il peso, il rilievo, il profumo, la profondità, il tempo, la continuità, e ovviamente il senso» e così facendo, di nuovo con Baudrillard, l’immagine «disincarnata» ha potuto assumere tutto il suo «potere di fascinazione». Florence Henri ha compreso come pochi altri il significato che sta nella «rifrazione del mondo, nel suo dettaglio» prodotto nel fotogramma. Anche quando alla fine degli anni trenta si avvia a concentrare i suoi interessi sulla pittura le ultime fotografie di paesaggi (Bretagna), di ritratti o di architetture (Parigi, Fiera Mondiale, 1937) avranno sempre il rigore dell’inquadratura, senza cessioni al formalismo. Come, infatti, fece rilevare nel 1934 il critico Jacques Guenne, «tutto il fascino delle sue immagini senza trucco viene dall’imprevisto che regola l’unione degli oggetti».