Le ragazze di Flo sono “brave” in un senso molto complesso. Sono brave in quanto coraggiose, selvagge, indomite, sfrontate, dotate di una pazienza insospettabile e di moti improvvisi che quella pazienza sobillano. La cantautrice e interprete napoletana Floriana Cangiano, per tutti Flo fin dal suo disco d’esordio arrivato nel 2014 dopo un tirocinio lungo e fertile al fianco di Claudio Mattone e Daniele Sepe, è arrivata al suo quinto lavoro, rispettando così una puntualissima cadenza di uscite biennali. Si intitola appunto Brave Ragazze ed è probabilmente il suo album più maturo, fluorescente, prezioso. È anche un album diverso, lo racconta lei stessa: «Brave Ragazze è il mio primo disco da interprete. Ho dovuto indagare le storie che hanno generato queste canzoni, immaginare traiettorie e motivazioni altrui». In realtà si tratta di una raccolta di dieci brani, di cui sei sono rielaborazioni o traduzioni in lingua italiana e quattro originali: non esattamente un disco di cover dunque, qualcosa di molto più stratificato e personale. L’idea di questa sorta di concept album è arrivata a Flo da un racconto di Anna Banti del 1952: “Le donne muoiono”. Un romanzo scritto dalla Banti, nom de plume di Lucia Lopresti, per parlarci di memoria, di immortalità e di donne. La storia è ambientata in un futuro lontanissimo in cui, a causa di un morbo chiamato “seconda memoria”, gli uomini non muoiono e ricordano le loro precedenti vite, mentre le donne sono condannate a vivere soltanto una vita, senza conservarne memoria, ma assumendone con più intensità i significati e le sensazioni.

LA FILIGRANA di cui sono tessute le pagine di quel romanzo e i testi delle canzoni scelte o composte da Flo parlano dell’amarezza di essere donna in un mondo non fatto a misura propria, ma nello stesso tempo dell’irriducibile e orgoglioso coraggio richiesto per affrontarlo, un coraggio che diventa gesto risolutivo e che resta sempre fedele a sé stesso. Sconfitto, a volte, ma mai perdente. Ne è venuta magnifica conferma l’altra sera al Teatro Studio dell’Auditorium, dove Flo ha presentato ufficialmente il suo nuovo lavoro in compagnia dei soli Cristiano Califano alla chitarra classica e Michele Maione alle percussioni. “Soli” è un termine impreciso e riduttivo, perché la “bolla” acustica ricreata dalla voce di Flo e dal lavorio dei suoi due partner si è dimostrata sostanziosa e piena di sfumature, balucinante e tenue quando doveva, vigorosa e frastornante quando serviva. Nel concerto live non sono entrate solo le “Brave Ragazze” della tracklist ufficiale. Flo le ha affiancate alla storia di Chavela Vargas (da “La Mentirosa” del 2018), a quella della gabbianella di Fernan Caballero, La Gaviota, e della sposa bambina Ilde Terracciano, “Per guardarti meglio” (entrambe tratte da “31Salvitutti” del 2020). Ci sono poi le escursioni nei dialetti del centro sud, che sono come botole per entrare nelle stanze di altre eroine, di altre “brave ragazze”: il salentino di Ferma Zitella, il siciliano di Cu ti lu dissi di Rosa Balestrieri, il romanesco di Me voi pe te”di Gabriella Ferri, e naturalmente tanto napoletano, a cominciare da quello divulgato in Connola senza mamma da Gilda Mignonette, la cantante napoletana più famosa d’America, regina dei migranti morta nel naufragio della sua ultima traversata New York-Napoli.

LE LINGUE per Flo non sono mai state un problema, piuttosto un’occasione, fortificata da un virtuosismo senza pari nell’appropriazione degli accenti, dei toni, degli slang, persino delle smorfie e dei tic verbali. Nel concerto al Teatro Studio, Flo ha alternato dialetti e italiano e si è immersa spesso e volentieri anche nello spagnolo, quello dei canti raccolti da Leda Valladares, cantante e ricercatrice del Tucuman, o dalla cilena Violeta Parra (lo splendido Maldigo del alto cielo). In particolare, dal punto di visto del corredo sonoro, oltre alla vivifica lezione della matrice partenopea (esaltata dal furibondo tracciato live per voce e percussioni di Oissa, una vera e propria descrizione della lotta feroce tra uomo e pesce), sembra che Flo abbia preso il meglio anche della mistura incredibile di cui è intrisa la musica afro-peruviana (quella di Susana Baca ma anche di Cecilia Barraza, Chabuca Granda, Lucila Campos…). Ne ha preso il meglio e l’ha portato a casa propria. Come se Forcella o il Vomero, fossero improvvisamente diventati quartieri di Lima.