Quel luogo che ha accolto braccianti, lavoratori a giornata, operai, trasformandoli in cittadini, diventando una vera e propria «cittadella del diritto del lavoro», come l’ha battezzata Luciano Gallino, è sotto attacco da tempo. E scivola lungo un piano inclinato sempre più scosceso. L’ultimo assalto, portato avanti dal Jobs act sostenuto dal governo Renzi, è contro uno dei baluardi della cittadella: l’articolo 18. Ma indietro non si torna, il problema, allora, è che fare? Se lo chiedono due giudici del lavoro, Carla Ponterio e Rita Sanlorenzo, in E lo chiamano lavoro… (Edizioni Gruppo Abele), in cui abbracciano, lungo 70 anni, la parabola del diritto. «La rivoluzione promessa dalla Costituzione e il progetto del lavoro come principale fattore di emancipazione sociale – scrivono – si scontrano oggi contro una realtà di persone senza lavoro e di lavoro sfruttato, degradato a merce, retribuito con compensi così lontani da ciò che occorre per un’esistenza libera e dignitosa, da aver generato la categoria working poors».

La Costituzione, nel 1948, scelse il lavoro come fondamento per la rinascita dopo le devastazioni del fascismo e della guerra. Ma, prima di entrare nelle fabbriche, dovrà aspettare oltre 20 anni. Solo con lo Statuto dei lavoratori si diede concretezza a diritti e libertà, contenuti all’interno della Carta.
Fu un percorso lungo e travagliato, basti pensare che il primo a lanciarne la proposta era stato Giuseppe Di Vittorio nel 1952. Tre anni dopo l’approvazione dello Statuto, nel 1973, fu disegnato il nuovo processo del lavoro, assegnando a un giudice professionale la competenza esclusiva sulle controversie tra lavoratori, datori e gli Istituti di previdenza. In quegli anni vennero scritti volumi di diritto del lavoro. Soprattutto, nacque – scrivono le autrici – un nuovo modello di giudice «più attento alla sostanza dei fatti che alle forme».

Le conquiste non fecero in tempo ad assestarsi che arrivò la reazione dei conservatori. Sarà l’autunno del 1980 con l’annuncio di quattordicimila licenziamenti e la marcia dei quarantamila a Torino, a far da spartiacque. Fino ad allora il lavoro aveva avuto un’accezione singolare, che sarà sostituito dal plurale «lavori». Compare una nuova parola d’ordine: flessibilità. Che all’inizio si accompagna all’aggettivo «felice».

Nel 1984 vengono introdotti i contratti di formazione lavoro, «un escamotage alle spalle del contribuente». Intanto, cresce il lavoro autonomo, o meglio parasubordinato, ma né la giurisprudenza né gli studiosi di diritto riescono a inquadrare il fenomeno. Sarà nei Novanta, che il lavoro atipico verrà istituzionalizzato. Si parte dal Protocollo d’intesa del 23 luglio 1993 tra governo, sindacati e organizzazioni imprenditoriali, che dà il via alla «modernizzazione» con l’introduzione, su modello europeo, dei contratti interinali. Nel 1996 è l’ora del «pacchetto Treu», che segna la frattura con la centralità del lavoro subordinato. Nel 2001, il libro bianco del ministro Sacconi, con l’intenzione di iniettare ancor più flessibilità; l’obiettivo, celato ma concreto, è di ridurre il costo del lavoro per gli imprenditori. Un’aspirazione rimane tuttora sopita: privatizzare la giustizia del lavoro affidandola a collegi arbitrali.

E arriviamo ai nostri anni, l’era Marchionne. L’azienda si configura come soggetto autonomo svincolato da leggi e contratti nazionali, anzi, fa da legislatore di se stessa. Ma la contrapposizione tra lavoro e diritti, come insegna la vicenda Fiat, non porta occupazione. Bensì, una riorganizzazione della società.

Se non è tutto perso, come ridare dignità al lavoro? «La strada – sottolineano Ponterio e Sanlorenzo – passa attraverso il recupero della consapevolezza dei lavoratori di essere parte di una classe, non più suddivisa in ragione del tipo di lavoro». Riprendendo le parole dell’economista ungherese Karl Polanyi, è necessaria una reazione «contro uno sconvolgimento che attacca il tessuto della società».