Ci sono romanzi imperfetti ma vigorosi che trasmettono una forte spinta a lettori giovani che abbiano la stessa età e voglia di vita dei protagonisti. «Alzati e cammina» ci comandano, non importa per quale strada e con quali mezzi. Così Rossella O’ Hara di Via col vento e 007 di Goldfinger, pericolosi per chi li incontra, fascinosi, irresponsabili a volte, ma brutali lottatori che, quando non c’è più speranza, arraffano la loro vittoria. È quindi con l’equivoca tenerezza con cui abbiamo conservato la minigonna scozzese o il maglione da pescatore irlandese del tempo in cui eravamo coetanei di James Bond e Pussy Galore, che oggi riprendiamo in mano Goldfinger.
«Quando uscì nel 1953, Casino Royal aveva un messaggio per il popolo britannico. Bond era un tipo duro e coraggioso, ma senza ascetismi. E rammentava ai suoi lettori le qualità che sembravano aver perduto. Otto anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’epoca dei grandi eroi che avevano costruito e mantenuto un impero era da tempo tramontata. Avevamo invece i battibecchi e gli intrighi delle superpotenze: una situazione umiliante» – scrisse Anthony Burgess. Nei faticosi anni cinquanta era iniziato il processo di decolonizzazione, la perdita dei valori tradizionali e la disillusione per la nuova realtà comunista a cui si era rivolta la generazione di scrittori del dopoguerra (Dennis, Orwell, Burgess, Durrell), gli Angry Young Men a teatro, i melanconici poeti degli anni cinquanta letti da Manganelli: «…hanno una certa eleganza dimessa e segreta, e sono colmi di sincero pathos morale, usano metafore caute, talora allegorizzano». Niente che fosse alla pari con il glorioso sperimentalismo degli artisti entre les deux guerres. Dopo una vittoria che aveva gli strascichi penosi di una sconfitta, si avvertiva il disagio di un tempo «out of joint», guasto, e la difficoltà a trovare un rimedio che non fosse guasto anch’esso.
Goldfinger uscì nel 1959, all’inizio della swinging London e del decennio più imprevedibile del secolo. Ian Fleming, classe 1908, colto, elegante, spregiudicato, che aveva servito nel Naval Intelligence Service con compiti di notevole responsabilità, era divenuto esperto di spionaggio, controspionaggio, sabotaggi, tradimenti, macchine e macchinazioni imprevedibili. Finita la guerra collaborò al Sunday Times, e per tre mesi all’anno nella casa di Goldeneye, in Giamaica, scrisse i suoi 007, mietendo applausi dai lettori e accuse dai critici. «Sesso, snobismo e sadismo» è quanto a un certo punto scopersero in James Bond che agiva secondo la morale immorale della guerra, ossia con licenza di uccidere un nemico, anche se ufficialmente non dichiarato, un attimo prima che lui uccida te. Ogni 007 esercita il suo fiuto eccezionale per scoprire il complotto segreto sempre all’orizzonte e disinnescare la bomba un secondo prima dell’esplosione.
«Seduto in fondo alla zona partenze dell’aeroporto di Miami con due bourbon doppi in corpo, James Bond pensava alla vita e alla morte» – così inizia Goldfinger, curato da Matteo Codignola e tradotto da Massimo Bocchiola (Adelphi «Fabula», pp. 295, € 20,00). In un solo giro di frase Bond è delocalizzato in America e si rivela un impenitente consumatore: oltre che bere all’americana, fuma Chesterfield King Size, indossa i completi dei Brooks Brothers – solo di recente diventati italiani. In Alsazia passa al locale estratto di Enziana annaffiato con birra Löwenbräu, gusta una fetta di gruyère con pane di segala, choucroute e dolcetti. Odia il tè, e in Inghilterra è solo di passaggio. Il mondo delle cose, dei grandi alberghi, delle stazioni, degli aeroporti, delle auto, del golf, delle armi, circonda Bond, e Bond se ne fa possedere. Sono questi «gli effetti Fleming», denunciati da Kingsley Amis, che àncorano il personaggio in una concreta, sensuale, anche se da ultimo improbabile, realtà. Dopo tanti anni, lo potremmo incontrare a bordo di una piscina o nel bar di un suo albergo, oggi invaso da turisti, nella detestabile tutina celeste che Sean Connery indossava nel 1964. Forse in missione segreta diretto in Corea. Bond è la spia di più lunga vita – e anche la più elegante quando veste Brioni.
Nel famoso saggio «Le strutture narrative in Fleming» (1965), Umberto Eco gli rimprovera le venticinque pagine di viaggio attraverso la Francia, bevendo deliziosi vini francesi ovviamente – ma Bond sta di casa nel migliore fuori casa! –, le quindici della partita di golf con Goldfinger. Ma questa è una appassionante occasione in cui possiamo guizzare nel cervello di Bond, constatare il sottile rapporto tra pensiero e azione di Bond, una macchina ammirabile in movimento, un corpo umano perfettamente sincronizzato che avrebbe fatto la felicità di La Mettrie, il teorico settecentesco dell’homme machine. Anche in punto di morte questa consapevolezza meccanica di se stesso non viene meno a Bond. «Contò i battiti lenti e cadenzati che risuonavano in tutto il suo corpo. Cos’era questa ridicola voglia di vivere che non ascoltava il cervello? Che teneva il motore acceso anche senza più benzina? Doveva svuotare la mente dai pensieri come il corpo dall’ossigeno. Diventare un vuoto pneumatico, un buco profondo di incoscienza. Ma la luce brillava ancora, rossa attraverso le palpebre … Il lento tamburo della vita gli rullava ancora nelle orecchie». A suo confronto Auric Goldfinger è un debole e spesso grottesco esemplare di Cattivo, con i suoi futili trucchi e l’improbabile impresa che vorrebbe compiere – svaligiare Fort Knox! Fleming gli dedica poca attenzione, tanto è di cartapesta quella scenografia.
Invece descrive magistralmente la vendetta di Bond sull’uomo che è anche lui una potente macchina omicida, Oddjob, risucchiato nel vuoto dal finestrino rotto dell’aereo. «Il corpo di Oddjob sembrò allungarsi verso il nero varco ululante. Ci fu un rumore secco, quando la testa passò e le spalle sbatterono contro la cornice. Poi il corpo del coreano fu risucchiato attraverso l’apertura come fosse dentifricio: lentamente, spanna a spanna, con un sibilo terrificante. Era fuori fino alla cintola. I glutei poderosi facevano resistenza, il dentifricio umano avanzava un centimetro alla volta. Infine con un rombo assordante, i glutei passarono e le gambe scomparvero, come sparate da un cannone». È la presente e futura perversità della macchina che combattono tutti gli 007: il missile, la bomba, l’ultima arma modello da nascondere nella custodia di un violoncello.
Nella vita di Fleming le donne non mancarono, ma Bond è un seduttore sbrigativo e le espone a grossi rischi. Jill Masterton, la ragazza ricoperta di vernice dorata, muore per asfissia. E la bella sorella Tilly scompare nella carneficina finale. È lui che ha provocato la loro morte, e non se ne preoccupa poi tanto. Shirley Bassey avverte: «Parole dorate vi sussurra nell’orecchio / ma le sue bugie non sanno nascondere quel che tu temi / poiché una ragazza d’oro sa che quando lui la bacia / è il bacio della morte…», parole che vanno riferite a quel Bond che ha lo sguardo vellutato e fatale di Sean Connery, non al Goldfinger di mezza età di Gert Frösbe.
Bond si ritrova con l’unica rimasta in vita, quel ragazzaccio di Pussy Galore, che ha il grande merito di odiare quanto lui la bevanda nazionale, il tè, l’imbevibile «tazza di fango». L’ideologia manichea resta nello sfondo e può rivestirsi di nuove allegorie: Bond è anche messaggero di morte agli ordini di un demiurgo oscuro che vede quel che 007 appena intravvede e capisce; perfetta macchina mortale, con il suo seguito di scene horror, che corre leggera verso un orizzonte oscurato da torme di macchine sempre più potenti ed efferate. Magnifiche pennellate di luminoso nero aggiungerebbero fascino a quel giovanotto che non ha età.