Flee, reinventando le regole del gioco del cinema documentario attuale, nel senso che mette in discussione il dogmatismo realistico a tutti i costi, si è trasformato, forse suo malgrado, in una sorta di opera riferimento per ragionare sulle annose questioni legate al «sedicente cinema del reale». L’aspetto che a nostro avviso è senz’altro il più encomiabile del film di Jonas Poher Rasmussen riguarda il tratteggio del protagonista, sottraendolo alla logica della vittima a tutti i costi. Amin non è mai ritratto come una vittima di una situazione che non riesce a gestire.

RASMUSSEN crea, e gliene va dato atto, un vero e proprio viaggio dell’eroe per il suo protagonista. Un romanzo di formazione che lo accompagna dall’invasione sovietica dell’Afghanistan prima, la precipitosa fuga dei russi con il paese in preda alla guerra civile poi, al soggiorno angoscioso in una Mosca ostile che inizia ad assaggiare i primi brividi di capitalismo e il successivo viaggio verso la Danimarca. Non solo. Rasmussen dichiara da subito che la storia di Amin è una storia vista dagli occhi di chi la vuole raccontare, quella storia. E che quindi si tratta anche di una storia condivisa. Partecipata. Il film inizia, infatti, con il regista che alla stregua di un analista, tenta di provocare la memoria rimossa nel suo interlocutore. Amin resiste, è recalcitrante, non vuole tornare indietro, avverte il terreno farsi friabile sotto i suoi piedi. È molto commovente questa consapevolezza da parte del regista, messa in scena come una forma di violenza nei confronti di Amin, che il film esiste anche perché è stato strappato al silenzio di chi forse avevo scelto di dimenticare, o comunque smettere di ricordare. C’è dunque una lacerazione all’inizio di Flee che ci interroga sulla funzione che il regista, il documentarista, ha nei confronti di una storia che è non la sua. Il film inizia dunque come strappato a una riottosità a parlare, cosa che rende poi il flusso del racconto ancora più coinvolgente. L’altro aspetto interessante del film concerne il suo distaccarsi dall’aspetto strettamente didattico (ossia ripercorrere la storia dell’Afghanistan) per permettere di osservare l’emersione del personaggio del film. Flee, dunque, si costituisce come un vero e proprio romanzo di formazione. Ed è all’interno di questo processo che Rasmussen inserisce il coming out di Amin. Non come il risveglio di una coscienza intorpidita, ma come una strategia per trovare intorno a sé lo spazio per vivere secondo i suoi desideri.

IN QUESTO SENSO è istruttivo osservare il transfert che Amin opera su Jean-Claude Van Damme, quando l’interprete era all’apogeo della sua fama con i film prodotti dalla Cannon. Van Damme diventa il segno di una possibilità così come Chuck Norris, nel documentario Chuck Norris vs Communism di Ilinca Calugareanu, diventa il segno di una resistenza culturale che si combatte a colpi di vhs clandestine. Con pochi tratti Rasmussen riesce a raccontare come Amin attivi una complicità erotica immaginaria attraverso il transfert attivato con uno degli ultimi grandi eroi sottoproletari del cinema popolare. Amin crea così un dialogo fantasmatico con quello che è (conradiamente) il suo compagno segreto. Il percorso che dall’Afghanistan conduce il protagonista alla sua nuova vita è davvero straziante, e nemmeno il tratto chiaro, da bande dessiné, riesce a stemperare l’angoscia di vivere da profughi nella capitale degli invasori. Ed è in questi momenti che il film si rivela particolarmente riuscito.

I PERSONAGGI da reali diventano, paradossalmente ma ovviamente non tanto, immaginari, e quindi universali. Il viaggio verso la Danimarca, compiuto tenendo custodito nel corpo e nel cuore il suo desiderio, è lancinante nella precisione romanzesca (più che documentaria). Il percorso di liberazione, però, sembra non volersi chiudere mai. Quando finalmente può vivere la sua sessualità, deve negare la sua famiglia per complicazioni burocratiche, pena l’essere rispedito a casa. E la lacerazione si ripete in forma inversa. Rasmussen ha creato uno straordinario romanzo di formazione documentario, che mette in discussione lo sguardo con il quale teoricamente si dovrebbero raccontare le cosiddette «storie vere». La bellezza del tratto disegnato permette allo sguardo di riposarsi – di respirare – nella chiarezza apollinea del segno, permettendo così di evidenziare il conflitto che sta sempre in agguato nel fuoricampo. Flee, dunque, è un testo che molto probabilmente farà testo nelle discussioni e dibattiti futuri riguardanti il documentario e il cinema del reale.