H.L. Mencken, saggista statunitense la cui vanità è probabilmente più nota della sua arguzia, si vantava di aver coniato il termine Bible Belt ( cintura della Bibbia) in occasione di una delle molte invettive che dedicò al sud americano, colpevole secondo lui, di essere un deserto privo di cultura e una regione popolata da bigotti fondamentalisti. Per via della stessa vanità, arrivò addirittura a dichiarare che il cosiddetto «rinascimento delle lettere del Sud», che ha generato, direttamente o meno, un grande numero di autori imprescindibili – da Eudora Welty a Cormac McCarthy – fu in parte provocato dalle sue frequenti condanne pubbliche.

Non è mai il caso di prendere Mencken troppo alla lettera, ma, che si condivida o meno l’attitudine critica nei confronti degli Stati Uniti del sud, è difficile avvicinarsi a quest’area e alla sua letteratura senza tenere in considerazione l’importanza della religione nella vita di ogni giorno e l’impatto che la particolare forma di protestantesimo evangelico qui diffusa, fortemente conservatrice, ha avuto sulla sua storia culturale e politica, dalla Battaglia di Fort Sumter (che diede il via alla Guerra civile) all’elezione di Donald Trump.

Varianti della fede
Le rappresentazioni del Sud moderno e contemporaneo sono popolate dalla presenza capillare di quella che oggi viene definita Christian Right, destra cristiana: una società ossessionata dal peccato, rappresentato dalla minaccia letterale e costante del demonio sempre pronto a trascinare negli inferi chiunque abbandoni la retta via, che confida ciecamente nel potere della redenzione e nella salvezza che segue la conversione.

Date queste premesse, non è difficile immaginare come debba essersi sentita Flannery O’Connor, la cui fede altrettanto totalizzante ricadeva invece all’interno del circolo sospetto della Chiesa di Roma, durante la sua breve vita, spesa quasi interamente nella roccaforte evangelica dello stato della Georgia, dove ancora oggi più dell’ottanta percento della popolazione considera la religione una parte fondamentale della quotidianità. Cattolica fervente circondata da quelle che considerava probabilmente delle anime smarrite (e spesso non del tutto bendisposte nei confronti della sua confessione), O’ Connor ci ha lasciato un ritratto del Sud caratterizzato da violenze e cupezze a volte insostenibili, sebbene sempre accompagnate da un’ironia affilata, distribuita con particolare forza soprattutto nei racconti, unanimemente considerati tra i punti più alti che l’arte della short story americana abbia raggiunto nel ventesimo secolo.

Meno frequentemente citati, ma non inferiori in qualità, acume ed efferatezza, sono gli unici suoi due romanzi, entrambi completamente pervasi dalla soffocante atmosfera religiosa del Sud: La saggezza del sangue, parabola disturbante e tragicomica, e Il cielo è dei violenti (traduzione di Gaja Cenciarelli, Minimum Fax, pp. 240, € 15,00) uscito per la prima volta nel 1960, una manciata di anni prima della morte prematura della scrittrice, e ora ripubblicato in una nuova, ottima traduzione corredata da un’introduzione di Marco Missiroli che, in linea con il tono del testo, si legge come un sermone accorato che prelude a un’eucarestia gotica.

Il mondo di Flannery O’ Connor è un mondo decaduto, lontano dalla luce divina. Il campionario grottesco dei suoi personaggi – una rassegna composta di diseredati, individui goffi o deformi, soggetti dalla crudeltà iperbolica e incomprensibile e peccatori di ogni risma – indica con insistenza la disperata necessità di redenzione per l’umanità intera.

Redenzione alla quale dolorosamente si aspira, e che quando finalmente si manifesta rivela una brutalità capace di annichilire, severa e spietata come una punizione del Dio veterotestamentario. «La grazia apporta in noi un cambiamento, e il cambiamento è doloroso», ebbe a dire O’Connor in risposta alle accuse di produrre «storie dell’orrore»; nelle sue intenzioni, per la verità, tutti i propri sforzi letterari erano indirizzati alla rappresentazione di quello che chiamava «realismo cristiano». La fede di O’ Connor non è in discussione, ma è facile capire il perché delle reazioni scioccate di alcuni dei suoi critici: l’azione della grazia divina, imperscrutabile come da insegnamento biblico, in queste pagine assomiglia spesso a un atto irrazionale dettato da un’ironia crudele.

L’intreccio
È il caso di quello che è forse il suo racconto più famoso, «Un brav’uomo è difficile da trovare», nel quale un’intera famiglia viene sterminata da tre criminali in fuga per nessun reale motivo se non puro, irreale sadismo. Ed è il caso di Il cielo è dei violenti, romanzo che mette in scena un limbo di anime tormentate, dove il conflitto tra Francis Marion Tarwater, adolescente antisociale convinto dal prozio fanatico Mason di essere un profeta, e suo zio Rayber, insegnante laico deciso a salvare il nipote dall’oscurantismo religioso con la forza della ragione, è la figurazione del conflitto che O’ Connor viveva ogni giorno, stretta tra le ingerenze del Protestantesimo e quelle dell’ateismo. Tarwater è deciso a battezzare il cugino, afflitto da disabilità intellettiva e che considera alla stregua di una bestia, per redimerne l’anima, progetto al quale Rayber si oppone con tutte le sue forze in un attrito crescente destinato a una drammatica esplosione.

L’ambiguità, tratto usuale della scrittura di O’ Connor, è somma in questa allegoria: separare nettamente il bene dal male o ricavare una morale coerente, come quella che ci si aspetterebbe da un’opera religiosa, risulta pressoché impossibile. Il truce Tarwater (il cui cognome indica la compresenza di catrame e acqua, e quindi una coscienza torbida) non è certo la scelta migliore per un battezzatore, e quello che chiama «amico», una voce autoritaria che lo segue ovunque e lo istruisce sul da farsi, sembra provenire dall’inferno piuttosto che dal paradiso al quale il ragazzo aspira. Rayber, animato da sincero progressismo, è senza dubbio mosso dalle migliori intenzioni, ma anche accecato dalla superbia dei sapienti – peccato capitale per un’autrice cattolica.

Colpe metafisiche e no
Il titolo stesso, tratto da un versetto del Vangelo di Matteo che recita «il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono», instilla un dubbio sostanziale sulla reale dimensione della violenza che pervade il romanzo: è una redenzione tormentata o una più letterale chiamata alle armi, una crociata in nome di Dio destinata a fare strage di infedeli? Tutti i personaggi sono coscienti della colpa, mondana o metafisica che sia, della quale si macchiano, e ciascuno è alla ricerca di una salvazione dall’esito incerto che sembra richiedere un costo immenso. È in questo tormento emotivo e intellettuale che si rivela il lato più umano e universale di O’ Connor. Oltre i confini del realismo cristiano caro all’autrice, Il cielo è dei violenti sembra soprattutto dare voce a un’incertezza esistenziale radicale che sfugge a ogni tentativo di domesticazione dottrinaria. Rivelando il dubbio, produttivo ma doloroso, che si nasconde al fondo di ogni vita.