In questa città, distinguere una razza non è facile, si rischia la confusione, Trieste è sempre stata una madre con le gonne accomodanti; tanti i padri, tanti i figli. Padri e figli ne arrivano in continuazione, lo si può notare anche in Piazza Garibaldi. Lì hanno piantato un ufficio di collocamento all’aperto, ed è una sede che non ha uffici e non ha sportelli, ma soprattutto, non c’è il disturbo burocratico che esige cartellini da timbrare o richieste da riempire. Intorno a una colonna, che sostiene la Madonna dei poveri, sostano i lavoratori stranieri con i visti incerti o scaduti.

Poi, ogni tanto, passa qualcuno e richiede: due manovali e un muratore. Tutti scattano in piedi e puntano i loro prezzo, chi vince va a lavorare, gli altri, con bottiglie di birra calda e sigarette senza filtro, rientrano nella sosta e sperano in altre occasioni.
Usando le salite e qualche galleria ci si può infilare nelle «fodere» (un modo di dire triestino per indicare i percorsi dei debitori quando sceglievano le vie strette e buie per non farsi vedere) e arrivare in periferia, e con foto polari si può visitare la schiena della città.

Il colle di San Giusto sta alle spalle, davanti c’è il rione di San Giacomo. Qui, per mezzo secolo, ha vissuto un popolo proletario, qui, per anni, ha prevalso il focolaio della fede comunista. Quasi tutti gli anziani hanno avuto e hanno referenze partigiane, e i meno anziani invece possono raccontare la presenza orgogliosa alla testa di tutti gli scioperi passati, e di tutti i fazzoletti rossi legati al collo durante le sfilate del Primo Maggio. Da qualche anno però, le bandiere sono state ritirate, l’orgoglio operaio è stato licenziato, e la solidarietà si è persa e dispersa nell’indifferenza del: «Ognuno per sé, Dio per tutti!».

Resistono le vecchie osterie, quelle col prosciutto caldo, e vino bianco, vino rosso, e dentro una sete per ubriacarsi la ragione e ingoiarsi il tempo con parole che si sono tolte il vecchio concetto della solidarietà. A Trieste, per una storia centenaria di transiti, siamo tutti serenamente imbastardati, e ci sentiamo figli di questa città anche senza avere la referenza delle generazioni.
Lasciandosi alle spalle il panorama della città e le alture dell’altopiano Carsico dove da anni vivono e convivono le minoranze slovene, quelle che, per saldare un bottino di guerra, hanno dovuto abbandonare le terre di un’Istria italiana, si può continuare a girare oltre la cartolina, proseguendo nel tracciato della schiena.

Così, sotto i piedi passano i rioni di Ponziana, Servola, Valmaura, piccole isole riempite dalle case popolari. Case che alle cinque del mattino si accendono e alle nove di sera si spengono, come se tutto fosse regolato da un contratto che impone: un’anonima comparsata. Ma anche le comparse possono muovere una storia, soprattutto in quegli enormi palazzoni dove è facile scontrarsi e dare un motivo a una cronaca: la disperazione della miseria, la tragedia dell’ubriaco, le bastonature prepotenti e la vergogna per la maldicenza, sono consuetudini che muovono la vita dei rioni. E tutto avviene senza gridare, il dolore lo si tratta con il silenzio, mentre gli altri, che non vi hanno partecipato, lo usano con il sussurro del pettegolezzo. Rioni operai, che non frequentano i Caffè antichi di Piazza Unità, e che tirano avanti la vita spaccando il centesimo. Voci popolari, che s’incrociano, si studiano, e si concedono il saluto solo dopo aver la certezza di una conoscenza.
Trieste è come una castagna, dura fuori e tenera dentro.

Rioni assurdi, come ad esempio il «casermone» di Rozzol Melara, che per una demenza politica, dovevano dimostrare la modernità di un contatto sociale, e che invece si sono dimostrate delle enormi prigioni per emarginati da tenere distanti come un isolamento. Le menti eccelse che hanno partorito quel monumento alla follia, ancora oggi hanno l’onore giornaliero di essere citati in un pensiero, quello maledetto che gli dedicano gli abitanti costretti a vivere quell’assurdo imbarbarimento. Abitanti con l’animo dignitoso, e che davanti a un’indifferenza sociale, si sono rimboccati le maniche e si sono salvati per conto loro.

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SCHEDA

Le connesisoni mutanti al Link festival di Trieste

Il testo di Pino Roveredo, autore di «Mastica e sputa» (Bompiani) è stato presentato ieri a «Link festival» che si tiene a Trieste e che assegnerà il Premio Luchetta 2016. Link è in corso fino a lunedì 25 aprile. Oggi (sabato 23 aprile) a Link festival il portavoce Unicef Andrea Iacomini presenta in anteprima il suo primo romanzo, «Il giorno dopo», autobiografia legata ai temi della Siria. Fra i protagonisti a Link anche Mauro Corona, Lucia Goracci, Toni Capuozzo, Gianna Schelotto, Veit Heinichen, Antonio Di Bella. Per informazioni: www.luchettaincontra.it