I «Classici dell’arte» Rizzoli sono stati una grande operazione civile di diffusione della conoscenza, con uno standard fotografico molto elevato: viene da citare una vecchia intervista di Giovanni Agosti, concessa una quindicina di anni fa, per parlare della plaquette preziosa composta dalla casa di edizioni Henry Beyle, contenente uno scritto ‘disperso’ di Ennio Flaiano offerto all’attenzione dei lettori per cura di Anna Longoni. L’intervento – dal titolo lirico de Il tempo dietro il tempo (pp. 96, euro 32,00) – comparve infatti come prefazione al volume consacrato a Paolo Uccello in quella gloriosa serie di compatte monografie, arricchita fra il 1966 e il 1985 da centoundici eruditissimi fascicoli, immessi di anno in anno sul mercato librario col vantaggio di una veste assai curata, di un formato arioso e di un prezzo competitivo.
Proprio a una tanto popolare collana Agosti ha dedicato diversi ricordi (e un suo allievo, Patrizio Aiello, torna i a riflettere sull’operazione culturale nel suo insieme con uno studio in corso di stampa), mentre la proposta odierna dell’etichetta milanese attira l’attenzione su uno degli aspetti qualificanti di quell’impresa, e cioè le prefazioni ‘d’autore’ premesse alla maggior parte dei cataloghi inclusi nella biblioteca rizzoliana.
Si era partiti, col massimo dell’ufficialità, affidando al Nobel Quasimodo la presentazione dell’uscita inaugurale su Michelangelo pittore (e da chi cominciare altrimenti?); ma i nomi arruolati poi videro coinvolte personalità fra cui Elsa Morante (per la grazia quotidiana di Beato Angelico) e Giuseppe Ungaretti (per i limpidi silenzi di Vermeer), Giovanni Testori (per l’urlo cruento di Grünewald) e Alberto Moravia (per l’esangue pauperismo del Picasso blu e rosa).
Un’affollata riunione accademica, insomma, che rimanda da un lato al costume mercantile – venato di crocianesimo schiettamente italico – aduso a legare i profili di letterati e poeti a eventi e vernissages in galleria, in un matrimonio efficace fra comunanza di sentimento poetico e profittevoli strategie pubblicitarie; dall’altro risponde invece alla seriosa divulgazione promossa dalla tv nazionale, orientata fra i Sessanta e i Settanta a individuare un proprio punto di forza nella scaletta documentaristica, connessa alle belle arti oltre che alla letteratura e al cinema.
Pur nel valore altalenante di simili testi, lasciati al libero estro degli autori, la ripresa dell’introduzione di Flaiano concorre a gettare nuova luce sull’autonomia di ciascun prologo, la cui originalità si è vista spesso annacquata dalla prospettiva imposta dal progetto polifonico o – ancora peggio – dal pregiudizio relativo all’occasionalità solo apparente di ogni contributo. In tal senso ha ragione la Longoni – profonda conoscitrice del pescarese, avendo collaborato con Maria Corti ai due tomi di Opere accolti fra i Classici Bompiani – nel ripercorrere la genesi del lavoro, ricordando come il letterato avesse di fatto scelto di recarsi a Firenze, all’inizio del 1970, per rivedere le opere dell’Uccello al fine di sostanziare la propria analisi. Trovando «gli Uffizi chiusi, il Grotto Verde di S. M. Novella in restauro», avrebbe infine optato per un album di scatti Alinari, forieri di prospettive inedite e sorprendenti close-up; e se l’onere del viaggio, le passeggiate in riva d’Arno guidate da una «limpida malinconia» attestano della serietà dell’impegno, non meno dimostrano la coscienziosità responsabile con cui Flaiano poté assumersi l’incarico i precedenti diretti per un compito siffatto censiti dalla studiosa, ossia gli scritti consacrati dallo scrittore a fatti d’arte disparati, sia nel corso di una fortunata presenza giornalistica sia sotto al travestimento della narrativa di finzione. Ancora nel ’72, a un anno dalla monografia su Paolo Uccello e a pochi mesi dalla morte improvvisa, avrebbe del resto cofirmato – assieme a Antonello Trombadori – uno studio sull’amico Amerigo Bartoli, per la rassegna retrospettiva tenutasi in una celebre galleria romana.
Nel saggio riproposto dai tipi di Henry Beyle – decisi a sottolinearne la preziosità con lo sperpero sontuoso di carta Tatamy e un’ordinata galleria di immagini, applicate a mano – l’engagement della scrittura riverbera però anche e soprattutto nelle scelte di stile che cesellano l’indagine, nella stessa scanzonata architettura che organizza l’analisi. Proprio la loro ‘sigla’ certifica infatti la paternità del testo, identificandolo – nella tendenza aforistica, nella rapidità dialogica, nell’impianto teatrale – come una flaianata bella e buona, in tutto coerente con l’eccentrica produzione dell’intellettuale, Premio Strega nel 1947 e fidato collaboratore di Fellini, corsivista per quotidiani nazionali e irriducibile mondano, cinto da un’aura di coriacea frivolezza.
La prefazione – pensata come un dialogo immaginario fra un ‘Io’ autobiografico e lo stesso artista – si intarsia così di battute memorabili (la sentenza di apertura, «aspettavamo la fine dell’arte, è venuta la fine della moda», ma anche «la tragedia è immobilità, arte di truccarsi») e soprattutto si carica di una cultura che è – tout court – quella di Flaiano: dal rimando ‘mascherato’ alla mostra di Kounellis presso l’Attico (coi cavalli vivi nello spazio bianco di una sala d’esposizione) allo Shakespeare più fantastico, dal Proust della Recherche (sul quale lo scrittore si esercitò a lungo, in vista di un impossibile adattamento cinematografico) ai moralisti seicenteschi, ai Guerrieri di Luciano Emmer…
In questo senso però è soprattutto il distinguo fatto circa la riscoperta surrealista di Paolo Uccello – una linea che inanella il simbolismo di Schwob (citato esplicitamente in premessa) e le riflessioni di Soupault, l’Art magique di Breton e le metafore di Artaud – ad assumere un senso specifico, nei confronti della parabola creativa dello scrittore. Laddove infatti questi si impegna a sottrarre la sovra-natura di Paolo a una siffatta démarche interpretativa, evidente si fa il ricorso a un lessico che, pur non nominandola, rinvia all’esperienza dechirichiana. Pensiamo cioè a parole fra cui «mistero», a espressioni della fatta di «il mondo ambiguo delle mitologie infantili», a formule come «il disegno altro non è che la trigonometria di spazi invisibili» di cui vanno tracciate «le mappe»; e del resto sono i tempi in cui un simile dibattito si vide riattualizzato, nell’eredità di apporti critici come quelli di Raffaele Carrieri o Mario Praz.
Nella rivendicazione sottotraccia di una genealogia metafisica sembra cioè di poter individuare una fonte possibile per la stessa stralunata ispirazione di Flaiano, propensa all’assurdità essiccata dall’umorismo sagace ma anche al quadro simbolico, fantastico e ambiguo, in odor di magico realismo.