La riforma costituzionale che sta per essere approvata in seconda lettura alla camera prevede un nuovo strumento a disposizione del governo per imbrigliare il parlamento: il voto a data certa. Vale a dire che sui disegni di legge che l’esecutivo considera essenziali per il programma (a suo insindacabile giudizio) le camere saranno chiamate a votare tassativamente entro 60 giorni. Come dovranno votare non è detto, non potendosi prescrivere in costituzione l’obbligo di approvare quel che chiede il governo. Per quello c’è il voto di fiducia.
Non è un istituto nuovo (è nei regolamenti dagli anni Settanta) ma con il governo Renzi è diventato la regola: 32 fiducie in un anno (più le due iniziali sul programma di governo). Persino una fiducia in negativo, al senato, per bloccare un emendamento. Riguardava la responsabilità civile dei magistrati, l’ultima legge approvata dalle camere nonché una delle pochissime di iniziativa parlamentare. Com’è prassi da anni, ma se nella scorsa legislativa la percentuale delle leggi di iniziativa governativa si fermava al 74% con il governo Renzi siamo già all’82% delle leggi approvate. Persino la riforma che riscrive un terzo della Costituzione è firmata direttamente dal presidente del Consiglio.

La fiducia è stata applicata a dismisura, anche su una legge delega, cioè su un atto con il quale il parlamento rinuncia al potere legislativo per affidarlo al governo entro limiti (che dovrebbero essere) precisi. Parliamo del cosiddetto Jobs act e anche in quel caso l’esecutivo Renzi ha silenziato il dibattito nella maggioranza e oltre: niente modifiche o crisi di governo e tutti a casa. In più nello scrivere i decreti delegati al termine del percorso, è cronaca recente, l’esecutivo ha tranquillamente ignorato i pareri delle commissioni parlamentari. Paradossale dunque che proprio sull’argomento Renzi abbia respinto le critiche della Cgil dicendo che «le leggi non le fa il sindacato, le fa il parlamento».

E invece il Jobs act l’ha fatto il governo dal principio alla fine, così come fa con i decreti legge che dovrebbero servire «in casi straordinari di necessità e urgenza» e invece sono già a quota 23, vale a dire un paio al mese in un anno di governo, e su materie che vanno dalla finanza locale alla giustizia alla scuola alle concessioni autostradali. Sulle leggi di conversione dei decreti, poi, viene posta regolarmente la questione di fiducia. E anche quando l’iniziativa è parlamentare, come nel caso che abbiamo citato della responsabilità civile dei magistrati, il ministro della giustizia ha presentato un maxiemendamento che ha riscritto la legge. Qualche parlamentare ha timidamente protestato, la risposta è stata: o lo votate così o facciamo un decreto.
Ma oltre agli strumenti ci sono le procedure. Ha fatto clamore la decisione della presidente della camera Boldrini di far scattare la cosiddetta ghigliottina nel dibattito sul decreto Imu-Bankitalia nel gennaio 2014 (erano gli ultimi giorni di Letta a palazzo Chigi). Il sistema per far decadere tutti gli emendamenti non è previsto dal regolamento della camera, ma è stato applicato per analogia con il regolamento del senato. Prendendone però solo un pezzo: è previsto per la prima lettura ed è stato utilizzato per impedire la decadenza del decreto, che invece è un esito del tutto fisiologico previsto dalla Costituzione. Boldrini ha successivamente detto che non si è pentita di quella scelta, ma anche che non la rifarà.

Il trucco di prendere dall’altra camera solo un pezzo del regolamento si è poi ripetuto a parti inverse, quando il presidente del senato Grasso ha avuto il problema di superare l’ostruzionismo contro la riforma costituzionale. E ha importato il cosiddetto canguro – che consente di saltare con un solo voto migliaia di emendamenti, ma al senato non è previsto – dalle regole della camera, dove però è esplicitamente vietato per le leggi costituzionali. Per le leggi di revisione costituzionale proprio la Costituzione impone di seguire sempre «la procedura normale», invece la discussione è stata ogni volta limitatta dai tempi contingentati, e nel caso dell’ultimo passaggio alla camera è stata prevista una seduta di Montecitorio sotto natale al solo scopo di «incardinare» il provvedimento per sveltirne l’esame nel mese successivo. Lo stesso trucco utilizzato per la nuova legge elettorale.
Malgrado tutto questo, la riforma costituzionale firmata da Renzi e dalla ministra Boschi ha avuto bisogno di un’ultima spinta a Montecitorio. E l’ha trovata nella seduta fiume, decisa dalla presidente Boldrini contro la logica che vedrebbe l’utilità di legare i deputati ai banchi notte e giorno solo per provvedimenti urgentissimi e scadenze dietro l’angolo. In questo caso si trattava invece delle riforma più delicata destinata a entrare in vigore tra tre anni e dopo un referendum. E infatti alla sera le sedute si sono tranquillamente interrotte, non «chiuse» ma solo «sospese» in modo che le opposizioni non potessero presentare nuovi emendamenti ostruzionistici alla riapertura. E la camera ha marciato al ritmo di palazzo Chigi.